di Renato Farina
I nostri militari fanno da scorta a un corteo della Nato. Sono piazzati su due Lince, a mezzogiorno e dieci, ora di Kabul, nove e quaranta ora italiana. Sono i mezzi di trasporto più resistenti alle bombe sul mercato degli eserciti. L'esplosivo di una normale mina, un tiro di bazooka, gli fanno un baffo, al Lince. I Lince resistono, danno sicurezza. I paracadutisti della Folgore hanno in tasca un libriccino in telo mimetico, ci sono i vangeli, i salmi, le preghiere semplici del catechismo. Non li sopportano per questo loro essere cristiani, non c'è niente da fare. Il corteo della Nato va dal quartiere diplomatico di Kabul all'aeroporto. Improvvisamente una Toyota bianca con a bordo due tizi ben rasati sorpassa, si infila in mezzo al corteo, esplode tremenda, salta tutto, sei nostri soldati frantumati insieme ai Lince, altri se ne salvano, almeno dieci, quindici civili sono straziati, fumo, sirene, le telecamere. La morte e l'odore insopportabile di sangue, polvere da sparo, lacrime bruciate.
Insomma. Sei morti a Kabul, gente nostra, paracadutisti di qualità straordinarie, morti per che cosa? Vite giovani buttate via? Ma no. Se glielo chiedi adesso, che i loro corpi sono sfracellati, ma l'anima no, direbbero la verità. Sono morti per i loro figli, come dice l'etimologia di soldato sono lì per il soldo, cioè portare a casa il pane, ma soprattutto per la nostra prole e i nostri nipoti in un senso molto pratico. Lottare là, vuol dire dirigere il terrorismo contro di loro invece che trasformare le nostre città in bersaglio.
Aspettavano il colpo, i militari italiani. I nostri parà della Folgore sapevano. Anche noi in Italia sapevamo, gli esperti avvertivano. Non è stata una sorpresa. E allora perché li abbiamo abbandonati con la testa e con il cuore, nessuno o quasi si è ricordato di loro per l'anniversario dell'11 settembre? In fondo questa gente si è sporcata la divisa e rischia la pelle proprio perché non ce ne sia un altro di 11 settembre, qualcosa di spaventevole magari a Roma o a Bologna.
Ieri mattina un tenente e i suoi ragazzi dovevano scortare roba grossa, un corteo della Nato. Non erano tranquilli, anche se era impossibile. Non c'entrano niente con l'immagine da Sturmtruppen, sono professionisti, capiscono che aria circola, ma sanno che quello è il quartiere più sicuro dell'Afghanistan, almeno in teoria. Nei villaggi tira però una brutta aria, e i terroristi partono dai piccoli agglomerati nei deserti. Da mesi si aspetta da lì la grande botta, si avverte il silenzio tremendo delle fonti di intelligence, di fatto smantellate. Parlateci con i soldati che tornano dall'Afghanistan. È come se intorno sentissero da un paio d'anni a questa parte il vuoto, ma si tira avanti, è il dovere: «La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino», anche se uno non pensava di difenderla a otto ore di volo, tra gente inturbantata, non davanti al deserto dei tartari, ma proprio in mezzo ai "tartari" barbudos.
Loro lo sanno perché sono lì. Non sono lì «perché ci sono gli americani», come ha risposto di prima mattina il massimo esperto della sinistra, di Limes-Espresso e di Repubblica, Lucio Caracciolo. Sono lì perché c'è il nido di Al Qaida, la fonte prima della minaccia al nostro popolo. Non sono lì per niente, per chissà quale politica idiota, come teorizza l'Italia dei valori. E non è una "guerra sporca" come spande veleno e diserzione il Partito dei comunisti italiani. Sono lì per qualcuno non per qualcosa, per le facce di chi vediamo intorno a noi.
Resta però un'altra domanda: ci sono responsabilità lontane da Kabul, magari a Roma o a Milano? I morti direbbero molte cose, che qualcuno ha loro mentito parlando di pace e non di guerra, per ipocrisia. Per una volta ha ragione Massimo D'Alema che dice: «Erano lì contro il terrorismo e per pacificare quel Paese». Contro il terrorismo? Vuol dire guerra e vuol dire creare territori liberi dalla guerra santa, e dunque pace. Come diceva san Bernardo, benedicendo i monaci guerrieri difensori dei pellegrini in Terra santa, occorre accettare l'orrore di uccidere gli assassini: «Non è omicidio ma malicidio».
Ma è colpa solo dei talebani questo lutto? Certo che no. I talebani sono assassini, sono fratelli gemelli di Al Qaida, fanno il loro infame mestiere. Ma perché hanno potuto colpire così? Lo hanno fatto con calma, premeditazione, ordine, flemma, senza essere sospettati, tamponati, tenuti lontano. Com'è possibile? Non è colpa anzitutto della mancanza di aerei Tornado, quelli servono a bombardare da lontano. Manca la cosa più necessaria in questa guerra di guerriglia, cioè l'intelligence, quello che gli israeliani chiamano humint, penetrazione di uomini dentro le città dove si nutre il nemico, dove arruola, fa propaganda. E lì praticare contatti, scambi, informazioni. In Afghanistan e in generale in Talibanistan (Kabul più Pakistan) eravamo i migliori, i russi stessi lo riconobbero, come disse il ministro Martino in conferenza stampa il Natale del 2002. Adesso, questa capacità italiana di infilarsi, mimetizzarsi, adottare fonti locali, raccogliere notizie di traffici d'armi, portare bambini in ospedale, rendersi amici il capo tribù con le medicine, e togliere così acqua ai tagliagole e kamikaze; questa bravura è una memoria lontana. L'intelligence italiana in zona di guerra è stata distrutta, per mano di magistratura e politica dal 2006. Se parli con gli americani, te lo dicono. Siamo spariti.
E così si è scivolati fatalisticamente verso questo disastro.
L'attentato grosso era in preventivo. Ma non così. Un missile o una pioggia di missili nella nostra base dalle parti di Herat, dove abbiamo in mano le operazioni. Una serie di mine nascoste sotto l'asfalto o sotto i sassi tra terre scoscese, come già accaduto, magari più in grande. Questo era probabile. Ma lì no. Sulla strada più controllata del mondo, quella che va dal quartiere diplomatico di Kabul all'aeroporto, ecco lì no. In quel momento no. La morte ha sempre questo: sai che deve venire, in guerra la preventivi, ma poi vedi i volti cari lividi nella bara, lividi e stranamente più giovani, e non sai dartene una ragione.
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