Lo scrittore che poi si mise a vendere libri

Luigi Mascheroni

La gente, diceva sempre, bisogna toccarla al cuore. Sopra questa apparente banalità Edilio Rusconi costruì un impero editoriale: giornali, libri, tv. «Quando penso a mio padre, mi rendo conto che ha avuto successo perché sapeva sempre esattamente cosa voleva la gente e cosa lui poteva darle. Poi veniva tutto il resto: la sensibilità, la generosità, l’energia». E i suoi lettori direbbero anche la qualità, la chiarezza, la precisione.
Il figlio Alberto, 62 anni, una passione per il golf, gli yacht d’epoca e i posti caldi - «Seguo il sole e il mare, quando arriva il brutto mi sposto da un’altra parte» - vive tra Svizzera, Francia e Repubblica Dominicana. «Mi occupo di finanza e di immobili. Un lavoro molto più difficile dell’editore, mi creda». Probabilmente anche più redditizio, visto che dopo essersi immolato per trent’anni nell’azienda di famiglia ha venduto tutto ai francesi di Hachette.
«Ho iniziato a lavorare con mio padre quando avevo 19 anni e ho smesso a 50: sempre fianco a fianco. Come è stato? Faticoso, perché lui era pignolo, metodico e perfezionista. Leggeva tutto, controllava, ricontrollava... Quelle didascalie chilometriche, precise al particolare: una sua mania. Come le foto. O i titoli: li faceva rifare magari dieci volte. Il titolo per lui non doveva essere improvvisato, ma studiato a tavolino. Certo, poi magari ci poteva anche scappare il colpo di genio....». Come la carriera di Edilio, precoce e vorace: un cocktail perfetto tra pianificazione e improvvisazione.
Edilio Rusconi passò l’infanzia a Bruxelles, dove i suoi erano emigrati, ma era nato a Milano, nel ’16: qui fa gli studi classici, si laurea alla Cattolica (tesi su Alfredo Panzini, per dire la raffinatezza), qui inizia a frequentare gli intellettuali («sceglieva sempre le persone affini a lui»): Bo, Quasimodo, Montale, Sereni. La guerra gli spezza le prime collaborazioni al Corriere e alla Stampa - «finì nella Selva Nera, deportato dai tedeschi» - ma nel ’45 è di nuovo in sella: capisce che il periodo che sta iniziando è quello della ricostruzione, e lui si specializza nel ramo «sogni», da regalare ai lettori. «La sua capacità di infondere speranza e ottimismo era incredibile. Un uomo dai grandi innamoramenti e dalle grandi delusioni, ma che credeva nelle persone: sapeva sempre cosa era meglio dire. Magari non ci credeva, ma lo diceva». Quando si trovò di fronte ad Angelo Rizzoli, nella redazione di piazza Erba in quel rasserenato ’45, lo sapeva bene cosa dire. Più o meno fu: lei ha bisogno di uno che sappia vendere sogni, io di qualcuno che me lo lasci fare. «Il giornalismo, come la letteratura, è lo sfruttamento dei sentimenti» era il suo motto. Il vecchio Rizzoli, il cumenda, gli commissionò la fondazione del settimanale Oggi e gli promise, per spronarlo, un premio di mezza lira per ogni copia venduta in più del concorrente Europeo, tanto non ce la farà mai pensava. Edilio Rusconi, el biundin, accettò la sfida, tanto ce la farò di sicuro pensava. «Mio padre aveva 29 anni e non aveva mai fatto il direttore. Fu una sfida che finì per trasformarsi in un grande affare, sia per lui che per Rizzoli». Il settimanale nelle previsioni doveva vendere 50mila copie. In cinque anni arrivò a un milione. Il più grande successo del giornalismo italiano. Come avrebbe detto poi il cumenda: «El biundin m’ha fregato». Il biundin aveva fiuto, cultura, coraggio. E l’intuizione che gli italiani, appena nata Repubblica, fossero già nostalgici di re, corone, principesse... Li accontentò raccontando loro nozze da mille e una notte, svelando memoriali segreti, pubblicando foto esclusive. Più tardi si vanterà di «aver fatto sognare gli italiani e di aver fatto piangere le sartine». Inventò un nuovo genere, il giornalismo popolare, e lo sfruttò fino in fondo. Poi il grande salto: da giornalista a editore. È il ’57, si mette in proprio e fonda un nuovo settimanale: Gente. Stile, grafica, contenuti: la ricetta è la stessa di Oggi. E anche il successo. El biundin aveva fregato il cumenda un’altra volta.
«Però mio padre a Oggi lasciò il cuore. Era come un figlio che vedeva crescere giorno dopo giorno, il suo orgoglio. Aprì una strada e allevò parecchi giovani spiegando loro il mestiere, i trucchi, le regole. E poi gli dispiaceva perché con Gente si allontanava dal ruolo di giornalista, al quale era attaccatissimo, per diventare un editore». Meglio, un tycoon della comunicazione: dopo Gente arriva Gioia, e poi Eva e poi settimanali economici, periodi di viaggi, turismo, motori; nel ’68 nasce la Rusconi libri che grazie al giovane intellettuale anticonformista Alfredo Cattabiani scompiglia la cultura del pensiero unico con autori «maledetti» come Tolkien, Eliade, Coomaraswamy, Guénon («a un certo punto papà ritenne che non si potesse avere una casa editrice senza un fiore all’occhiello, anche se economicamente perdente...») e nell’82 crea Italia 1, il network che poi venderà a Berlusconi. «Il realtà mio padre, agli inizi, alla televisione non credeva minimamente. Fui io ad accettare quella sfida, anzi quel gioco, negli anni Settanta. A Firenze c’era Montagni, uno degli “inventori” delle tv libere, che ci propose di acquistare le sue emittenti: come don Chisciotte ci lanciammo nell’avventura. Ma erano i tempi che si rompeva una parabola sui monti si andava a ripararla con il mulo... era difficile credere a qualcosa del genere...».
No, Edilio Rusconi con le antenne e i segnali non ci prendeva. Era un uomo legato all’inchiostro e alla carta. «Dormiva poco di notte: leggeva, lavorava, e al mattino faceva trovare sulle scrivanie dei giornalisti, me compreso, dei biglietti con le varie cose da fare: “verificare questo”, “cambiare quest’altro”, “ho letto il suo articolo: non è abbastanza commovente, riscriverlo”... cose così». I biglietti scritti a mano sui fogli da bozze... Edilio Rusconi era un tradizionalista (anche in politica: «tutti lo definivano un uomo di destra ma mio padre era cattolico e anticomunista. Solo che negli anni ’70 chi non era di sinistra era automaticamente fascista: un marchio che sopportava con dignità»), un galantuomo («Non criticava mai nessuno, non giudicava»), superstizioso («Oddio, se poteva evitare una riunione di venerdì 17 la evitava...»), abitudinario («Non usciva quasi mai a pranzo o a cena. Era casalingo con orari da giornalista di una volta»). E soprattutto uno che aveva nel sangue «la voglia di fare», da buon milanese. «Era milanese puro, per lui questa città era tutto. A parte le rose che coltivava sul terrazzo, l’unico divertimento era il lavoro. Niente vacanze, viaggi solo per lavoro. Ha sempre vissuto qui, dopo la guerra in piazza Gorini, poi alla Casa dei giornalisti, quindi in piazza Repubblica e infine a Porta Venezia. L’ha girata tutta, Milano».

Passando da via Vitruvio, dove nacque la casa editrice, e dopo da viale Sarca, il suo quartier generale, dove - narra la leggenda - l’antivigilia di Natale, ogni anno, c’era la salita all’undicesimo piano di tutti i redattori, caporedattori e direttori di testata per il bacio della pantofola al Presidente. Che da biundin, alla fine, era diventato cumenda.

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