La scrittura «al femminile» ormai è roba da maschietti

È come per Nanni Moretti, regista ribelle di film d’avanguardia finché non si trasforma in «uno splendido quarantenne», subito rovinato dalla politica e dalla paternità, che in un artista è ancora più kitsch della maternità in una donna non artista. Così basta prendere due splendidi quarantenni narratori maschi, Tiziano Scarpa e Carlo D’Amicis, per rendersi conto di come la letteratura femminile non sia legata ai cromosomi di chi scrive, e dunque la si smetta di chiamare scrittori gli scrittori solo perché maschi e scrittrici le scrittrici solo perché femmine. Virginia Woolf, per esempio, era uno scrittore, con buona pace delle femministe. Eppure non si scappa: le scrittrici, per natura, sono custodi di cose come «l’anima» o «la vita», per questo Veltroni non è meno signora della Baricco.
D’Amicis, classe 1964, aula minimum fax, collana diretta da Lagioia, è una scrittrice in regola. Infatti non ha niente di meglio da raccontare che l’Italia portata alla rovina dalla televisione, e il suo La battuta perfetta è in realtà il curriculum ideale da portare a Santoro per farsi prendere come sceneggiatore per una docufiction o come «ragazza zero», al posto della Innocenzi. Convinta, la D’Amicis, che infilare Berlusconi in un romanzo ad alto contenuto moralistico serva a restare nella storia, almeno nella bibliografia di Berlusconi. Cercando, oltretutto, di immaginarsi goffamente in un personaggio al fianco di Berlusconi, dall’invidia del pene al desiderio di Silvio, in un libro significativo dell’inconscio collettivo antiberlusconiano e scritto, alla fine, per fare la morale al lettore. Sempre la solita, per carità, come in Ricordati di me della signora Muccino, e chi se lo dimentica, altro splendido quarantenne che ha timbrato il cartellino emotivo sia dell’edificante sociologico che della felicità dell’anima.
In ogni caso essere edificanti è l’ultima frontiera della letteratura quando è finita la letteratura, o quando non è mai iniziata, peggio c’è solo la parola «generazione» (la mia generazione, la vostra generazione, la generazione degli anni Settanta, la generazione degli anni Ottanta, la generazione X...) che sempre porta con sé prediche pretesche transgenerazionali, dove una generazione spiega all’una la colpa dell’altra. Voglio dire: ma di che generazione erano Sterne, Kafka, Joyce, Proust, Flaubert, Balzac, Dostoevskij?
Se si accorgessero tuttavia di essere suore mancate anziché scrittori riusciti, potrebbero compensare la crisi di vocazioni del Vaticano e liberare le librerie da se stessi. Non per altro la parabola televisiva della D’Amicis finisce con un epilogo evangelico-celentanesco e una risata che si abbatte sulla «meravigliosa bellezza del creato». Sembra la versione in prosa del sermone di Scurati su Gli anni che non stiamo vivendo appena pubblicato da Bompiani, solo che Scurati non è una suora ma un prete riuscito, e a differenza di D’Amicis dice la messa senza farla troppo lunga, e potete cambiare canale quando lo vedete comparire in televisione.
Stessa cosa vale per Tiziano Scarpa, la signora Scarpa, che da splendido quarantenne ex-cannibale ha appena pubblicato un libro edificante-paterno per dire Le cose fondamentali (Einaudi) ossia partorire un figlio. Ultimo baluardo degli autori spompati, scrivere un libro pensando al bambino: male che vada se scrivi delle stupidaggini le stai scrivendo a un bambino, mentre il Moretti che era ancora l’Apicella dei bei tempi e ancora non splendido quarantenne diceva alla coppia istupidita dalla contemplazione del proprio figlio: «La smettete? Non è il primo figlio del mondo». Anche la Scarpa ci dà giù a più non posso, vuole essere meno sociologica di D’Amicis e più strappalacrime di De Amicis. Il bimbo ha la febbre? «Ti tengo in braccio, vorrei riuscire ad assorbire la tua febbre, toglierti di dosso il calore in sovrappiù che ti fa sudare e piangere». Il bimbo ha fame? «Per ora sei attraversato da tua madre. Prima la respiravi, immerso dentro di lei. Adesso la mangi. Un’ondata di mamma ti attraversa». Il bimbo un giorno leggerà il libro della Scarpa? «Continuo a immaginare che mi leggi. Mi metto a fantasticare su di te, dove sarai quando leggerai queste parole. Mi piacerebbe che le portassi in giro, che le leggessi camminando in un mattino d’estate. Mi piacerebbe che fossero invase di luce».
Se fossi tuo figlio mi piacerebbe che tu fossi invaso da uno stormo di locuste carnivore mentre scrivi, Scarpa. Meno male di tanto in tanto ci sono anche riflessioni teorico-pratiche come questa: «Per adottare un figlio si fa una quantità di test ai candidati genitori, mentre chiunque voglia mettere al mondo un bambino suo può farlo senza passare alcun esame». Incredibile, quarant’anni e non li dimostrano. Purtroppo stracciati da una scrittrice splendida quarantenne ma molto più ferrata e attrezzata e prorompente in materia, Antonella Clerici, alla quale la Scarpa non lega neppure le scarpe. Tra l’altro il suo ultimo capolavoro si intitola Aspettando te, e uno si identifica prima ancora di aprirlo. Come quando dice, Antonella: «E allora io ho scoperto che suono ha il dolore: il silenzio. Nel cuore di tuo figlio. Nella tua pancia.

Dentro di te. Ne ero assordata». Insomma se proprio, per leggere, devo scegliere una splendida quarantenne, se proprio devo essere allattato, se proprio devo scegliere una pancia dentro cui pensarmi, io scelgo Antonella.

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