Roma Dagli amici mi guardi iddio che dai nemici mi guardo io, come recita l’antico adagio. La cui fondatezza molti leader del Pd e del centrosinistra hanno sperimentato sulla propria pelle.
Il calcetto dell’asino assestato da Rosi Bindi ha decisamente rovinato il day after di Pier Luigi Bersani, che sabato aveva concluso con bagno di folla e buon riscontro mediatico la festa del partito a Pesaro. Il segretario del Pd era riuscito a coniare la frase ad effetto («Berlusconi ci sta portando a fondo») giusta per finire nei titoli di giornali e tg; aveva con agilità evitato di inciampare nel suo comizio sulle questioni più aggrovigliate per il Pd, dalla riforma elettorale alla questione morale alle alleanze; aveva pure lanciato il grande appuntamento di piazza contro il governo per il 5 novembre, magari con la speranza che per quel giorno non ce ne sia già più bisogno.
Insomma, era andata bene. Salvo che ieri, a mandargli per traverso il caffè durante la lettura dei giornali, ci ha pensato la presidente del suo partito. La quale, intervistata dal Riformista, rivela che a lei quel Penati là non è mai piaciuto.
Per motivi «politici», per carità, non certo etici che altrimenti - si immagina - sarebbe filata dritta in Questura a denunciare. Per cui se lo tenne per sé, quando Penati era l’uomo chiave della mozione Bersani, quello che decideva ruoli e spazi degli alleati del futuro segretario (tra cui anche la Bindi). Oggi però può sputare il rospo.
Ecco qui: «Quando Pier Luigi gli affidò la responsabilità della sua mozione alle primarie non mi opposi a quella scelta. Ma non la condividevo». Per ragioni squisitamente politiche, come si diceva: «Penati rappresenta quella sinistra di governo convinta che le idee della destra, se portate avanti dalla sinistra, sono migliori. Come le ronde, tanto per fare un esempio. Questo modo di fare politica a me non è mai piaciuto».
Ma all’epoca la Bindi se lo tenne per sé, e divenne presidente del Pd, regnante Penati. E non è finita qui: la Bindi difende l’operato del partito («Sul caso Penati Bersani è arrivato a una posizione netta», concede) ma lancia anche un avvertimento a tutti gli ex Ds: «Quando noi e loro abbiamo deciso la “comunione dei beni” dentro il Pd, io ho pensato che ci fossimo detti tutto. Per adesso non ho motivi di pensare il contrario. Ma se c’è ancora qualcosa da chiarire, spero che venga fatto in fretta».
Gli ex Ds tacciono, e masticano amaro. Un dirigente ex Pci di peso sbotta: «La Bindi sta facendo l’avvoltoio: ha in testa una sola cosa, candidarsi alle prossime primarie e vincerle, per andare a Palazzo Chigi. In asse con Romano Prodi per il Quirinale: non avete visto che appena lui ha firmato il referendum sul Mattarellum è corsa a firmare pure lei?».
Prima di un’eventuale candidatura alle primarie, però, ci sarebbe l’ostacolo Bersani da superare. E proprio lei lo ha ricordato, pochi giorni fa, ammonendo Matteo Renzi (che come potenziale e pericoloso antagonista le sta molto sulle scatole) che «il candidato naturale è il segretario», e che se uno volesse candidarsi contro di lui dovrebbe «uscire dal Pd». A meno che, naturalmente, non sia Bersani a farsi da parte. E l’inchiesta su Penati (che intanto continua a difendersi con le unghie e coi denti, e ieri ha duramente smentito le «ricostruzioni parziali e false dei miei accusatori») sembra fatta apposta per riportare gli ex Ds al punto di partenza.
A quando cioè erano quei «figli di un dio minore» non legittimati a governare, che dovevano lasciare il passo all’ex Dc di sinistra e/o tecnocrate di turno. Bersani e D’Alema non hanno nascosto in questi giorni di pensare proprio questo.
Rosi Bindi, che (grazie alle battutacce berlusconiane) è diventata una vera icona anti-Cavaliere e che si è coltivata tutte le aree di consenso utili a sfondare a sinistra (dalle piazze Cgil a quelle viola, da quelle referendarie a quelle papaline, da Repubblica al Fatto) è perfetta per il ruolo. E lo sa.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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