E se le cose si fossero svolte diversamente e Silvio Berlusconi non fosse mai entrato in politica?
In quel gennaio 1994 il centrodestra era allo sbando. Anzi, neanche esisteva come concetto. Da un lato, c’era il pentapartito travolto da Tangentopoli. Un’indistinta accozzaglia di destri e sinistri, più morti che vivi, disposti a riciclarsi ovunque. Dall’altro, c’erano i quattro gatti del neofascista Fini. Il solo florido era il Pds, graziato dai giudici e pronto a prendere le redini dell’Italia con la gioiosa macchina da guerra capeggiata da Achille Occhetto. Il che avvenne trionfalmente il 28 marzo, data delle elezioni politiche. Per la prima volta, andava al potere in Occidente un partito che fino a pochi mesi prima si chiamava comunista e che si era finanziato la campagna elettorale con i residui fondi del Cremlino.
Effetto immediato della vittoria fu il rientro nei ranghi della magistratura che aveva raggiunto lo scopo. Con una breve coda: il caso del pm Di Pietro, distintosi nel periodo di Mani pulite per la rozzezza. I maggiorenti del pool di Milano, guidato da Borrelli, lo consideravano un truzzo da isolare. Gli fu però riconosciuto il merito di avere abilmente insabbiato la tangente Enimont al Pci, e ottenne il perdono. Al pm molisano, già rassegnato a dimettersi per tornare ad amministrare condomini, fu concesso di rifugiarsi nelle terze file della magistratura. Qui si trova ancora oggi, a distanza di due decenni. È in una difficile situazione familiare, col figlio spiantato e il cognato Cimadoro a carico, acconciato in due camere e cucina con la moglie delusa per averle continuamente promesso un favoloso patrimonio immobiliare che - venuta a mancare la svolta del destino - non ha mai realizzato.
Alla presidenza del Consiglio, Occhetto è rimasto tre anni. Poi, com’era avvenuto in Urss, con la defenestrazione di Kruscev da parte di Breznev, fu soppiantato dai compagni di partito. Con successive rivolte di palazzo, diventarono premier D’Alema, Veltroni, Fassino, Napolitano, Reichlin. A metà degli anni Duemila, un breve interregno dell’ex dc, Franceschini, interruppe la sequela dei comunisti, che riprese con Bersani e Vendola, fino all’attuale governo Violante. Unico elemento di continuità nei cambiamenti, il ministro dell’Economia, Vincenzo Visco, vero uomo forte del Ventennio. Con lui la tassazione ha raggiunto il 70 per cento del reddito, il Pil si è ridotto della metà, la fuga dei capitali ha rilanciato i paradisi fiscali prima di esaurirsi per mancanza di capitali. Per frenare l’esodo, Visco cercò di accaparrarsi i servigi di Giulio Tremonti, in nome dell’antico sodalizio tra ex allievi del socialista, professor Reviglio. Ma Tremonti, noto fiscalista lontano dalla politica - poiché l’uomo che avrebbe potuto inventarlo come ministro non si è mai palesato - ha rifiutato le avances. Così, ha tenuto per sé i trucchi che usa per celare le ricchezze dei propri clienti riservandosi di stanarli il giorno - se mai verrà - in cui sarà lui il preposto a combattere l’evasione fiscale, magari istituendo un’occhiuta Agenzia delle Entrate. Nell’attesa di trasformarsi in cane da tartufo dei nascondigli, si gode i proventi che gli derivano dall’arte di crearli.
Romano Prodi non ha mai più avuto un ruolo politico dopo la discussa esperienza come ministro dell’Industria negli anni Settanta e l’interferenza nel rapimento Moro con la famosa seduta spiritica. È stato però riconfermato tutti questi anni alla presidenza dell’Iri durante i quali ha venduto l’intero patrimonio pubblico a De Benedetti che lo ha spezzettato e rivenduto a diversi satrapi africani. Con la cessione all’Ingegnere di Finmeccanica, l’ultimo gioiello, Prodi si è ritirato assieme lui a Lugano dove scrive libri sul declino dell’Occidente a uso della Cina di cui è ascoltato consulente. Di nascosto da De Benedetti, che non ne vuole sapere, Romano va talvolta a Ginevra a trovare i maschi dei Savoia impediti a tornare in Italia dalla XIII disposizione transitoria della Costituzione. Insieme, deplorano l’accanimento con cui gli ex comunisti li costringono a un antistorico esilio e si chiedono se sia già nato il coraggioso che finalmente lo cancellerà.
Dopo avere cercato per un po’ di restare sulla scena, Casini, Cesa, Rutelli, Formigoni e altri già in auge prima di Tangentopoli, si sono rassegnati e hanno fondato con Mastella una bocciofila. A loro si sarebbe voluto unire Fini ma i camerati al motto «boia chi molla» lo hanno costretto a resistere. Lo mostrano a ogni elezione e quando il Msi prende lo zero virgola, lo rimettono in naftalina, sperando che per la prossima tornata nasca un volto nuovo, tipo Bocchino, cosa impossibile perché Italo è impiegato di concetto al comune di Vico Equense. Fini è un rassegnato, senza grilli per la testa, che vive modestamente con la prima moglie, senza scorta che lo porti nelle acque vietate dell’Isola di Montecristo a fare pesca subacquea. A Montecitorio si fa vivo per riscuotere la pensione, a Montecarlo passa con l’utilitaria quando va a Bordeaux a trovare il vecchio Le Pen per parlare di Mussolini.
Ancora oggi, che siamo nel 2010, in Italia se si pronuncia il termine di «escort» si consulta il dizionario, la bandana evoca la salgariana Tigre della Malesia, Floris è la variante sarda di fiore, Santoro è «Michele chi?», Travaglio una fase del parto. Dopo che Marchionne ha dichiarato «l’Italia è un soviet» e la Fiat ha abbandonato il Paese, Montezemolo, orfano della Ferrari, ha aggregato Emma Marcegaglia in un’agenzia di servizi per la consegna chiavi in mano di stand per i Festival dell’Unità. Per accedere agli appalti, hanno costituito la cooperativa rossa Montemar, che echeggia i loro nomi ma suona anche politicamente corretta, ecologicamente compatibile e rigorosamente antinucleare come si conviene a un Paese che, per sua fortuna, non è mai stato sotto il tallone di Berlusconi.
Non resta che dire due cose di costui. Immune dal demone della politica, il Cav è ormai il maggiore imprenditore televisivo del mondo, a varie lunghezze da Murdoch. Privato a suo tempo di Craxi, ha trovato all’inizio una sponda in D’Alema che disse: «Fininvest è un patrimonio del nostro Paese». Con questo generoso viatico della forza egemone, il geniale brianzolo ha fatto il resto da sé. Vive nella sua bella casa di Arcore e, senza i riflettori addosso, ci fa quello che vuole. La moglie, Veronica, abita a poca distanza, non sa dai giornali quello che combina il marito, anzi non li legge affatto, tanto meno Repubblica e non ha mai conosciuto Maria Latella. Il Cav dà una buona fetta dei suoi redditi al San Raffaele perché scopra un elisir che porti la vita media a 120 anni e si è prenotato come cavia.
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