Controcultura

Se l'arte diventa "artivismo" e la creatività solo impegno

L'"artivista" è quell'artista che predilige l'impegno politico al semplice fare arte e, di conseguenza, l'artivismo è quella corrente ormai preponderante nel contemporaneo per cui l'unica vera arte è quella "impegnata".

Se l'arte diventa "artivismo" e la creatività solo impegno

L'«artivista» è quell'artista che predilige l'impegno politico al semplice fare arte e, di conseguenza, l'artivismo è quella corrente ormai preponderante nel contemporaneo per cui l'unica vera arte è quella «impegnata». Questo tipo di arte politica rifiuta le teorie estetiche novecentesche secondo cui la pittura è esperienza pura e sufficiente a sé, e al contempo disdegna le poetiche postmoderniste e citazioniste dedite all'entertainment, aborre ovviamente l'idea di bellezza e di decoro, quella di trascendenza, prediligendo al contrario l'intervento sul presente, la cronaca, i temi di attualità. Gli esempi sono innumerevoli e eterogenei, da Ai Weiwei a Banksy a Cattelan: ogni artista impegnato ha una propria specificità, una propria filosofia e un modo di intervento, una propria genealogia alle spalle e un contesto di riferimento dentro cui per l'appunto impegnarsi.

Preziosa è dunque la tassonomia proposta da Vincenzo Trione in Artivismo (Einaudi), un saggio molto documentato, denso di rimandi filosofici e letterari, che passa in rassegna non solo i macro insiemi, ma nello specifico le opere di molti «artivisti» trovando per le varie sfaccettature la giusta denominazione: «luddisti», «collettivi», «apocalittici e integrati», «cronisti», «urbanisti», «pedagogisti», «monumentali», quelli che si interessano di problemi sociali e migrazioni, di ecologia e ambiente, di questioni etniche, storiche, propriamente ideologiche e politiche... Il panorama della Post-arte è infatti arzigogolato, tra sano velleitarismo e finto ribellismo, e spesso i risultati plastici di tanto impegno sono risibili, specialmente quando l'artista tralascia del tutto gli aspetti formali, preferendo invece, tra installazioni e performance, i concetti e le verbalizzazioni: non avendo egli infatti competenze specifiche sui temi trattati - non è uno scienziato, non è un sociologo, non è un antropologo, non è un teologo - al massimo gli si deve riconoscere ironia ed estro dissacratorio. Lo spiega bene, in un recente saggio altrettanto prezioso, Carole Talon-Hugon (L'arte sotto controllo, Johan&Levi, 2020): l'artista si trasforma in attivista, l'opera in documento, l'esperienza estetica in esperienza politica, la critica d'arte in supporto didattico. Assistiamo cioè a una «disartificazione» dell'arte, a un suo esaurirsi, proprio nel momento in cui le vengono assegnate funzioni etiche, compiti più alti rispetto a quelli tradizionali. L'arte sociale non produce più opere, bensì contenuti che prescindono dalla forma in cui sono fissati, quando il compito dell'artista sarebbe innanzitutto di occuparsi della forma. E in questa tensione politica sta la fine dell'arte come l'avevamo sempre pensata: il campo cioè dove l'umano si metteva in relazione con lo spirito.

Trione non dà giudizi di merito sull'«artivista» che spesso nel più puro politicamente corretto cade in aporie irrisolvibili, di essere nello stesso momento dentro e fuori il sistema, di criticare cioè il sistema che lo premia, che lo innalza a guru di una nuova religione.

Nell'ultimo capitolo («Controdiscorso sull'arte politica») Trione compone però un proprio museo immaginario enumerando una serie di artisti che definisce «impolitici», ma proprio per questo eminentemente politici e che si assumono innanzitutto la responsabilità del fare arte: l'esempio più chiaro è Anselm Kiefer che non ha tensioni messianiche, non è dogmatico, è scevro da ogni moralismo, eppure interpreta il suo lavoro come pratica militante, si confronta con la storia in modo problematico, e nello stesso tempo, produce opere di grande impatto lirico e significanza.

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