L'islamofobia è diventata una fobia occidentale che viene usata per cancellare carriere, lezioni accademiche, posti di lavoro e pubblici dibattiti: in pratica è uno strumento di intimidazione culturale. Un caso fresco è quello di Steven Greer, un docente di Bristol accusato appunto di islamofobia per aver trattato l'attacco a Charlie Hebdo in una lezione sul terrorismo: l'indagine lo assolse pienamente, ma l'università eliminò comunque il suo corso sicché lui, dopo 36 anni di carriera a Bristol, decise di andare in pensione e dovette cambiare casa per le minacce ricevute, giungendo a travestirsi per uscire in pubblico. Il suo caso è appena giunto all'attenzione dell'Office for Students inglese. Poi ci sono casi più sottotono come la scuola britannica che ha vietato ai bambini di usare la parola "pig" per non offendere i musulmani, la mostra tedesca ripulita dalle guerre arabo-cristiane per evitare percezioni islamofobe, il professore finlandese sospeso per aver mostrato anche lui le vignette di Charlie Hebdo. Sono sempre gli inglesi a battere tutti: un 54enne del West Yorkshire fu licenziato dal negozio per aver postato il video di una scenetta comica che prendeva in giro l'Islam; l'anno dopo fu licenziato anche un capotreno della West Midland Trains per aver celebrato la riapertura dei pub (dopo il lockdown) scrivendo su Facebook "non possiamo permettere che il nostro stile di vita diventi una sorta di califfato musulmano senza alcol". A Richard Dawkins, scienziato ed etologo, fu impedito di tenere un discorso al Trinity College di Dublino per le sue opinioni sull'Islam. Il think thank britannico "Runnymede", intanto, definiva l'islamofobia "una forma di razzismo simile all'antisemitismo".
Poi ci sono i casi più istituzionali: nel 2024, dopo l'attentato islamico di Solingen, il cancelliere tedesco Olaf Scholz fu accusato di essere "islamofobo" coi giornali a cambiare discorso il più in fretta possibile. Poi va sempre citato il caso della morte di Mahsa Amini nel 2022, quando lei, 22enne, fu arrestata dalla polizia iraniana perché le fosse impartita una "lezione informativa" che si tradusse nella sua morte; ciò che accadde, poi, è cronaca: tantissimi iraniani marciarono contro l'imposizione della legge sull'hijab obbligatorio per le donne, ma il paradosso è che quei cortei con le manifestanti che additavano l'hijab come strumento di sottomissione, da noi, in Occidente, oggigiorno, potrebbero configurare il reato di islamofobia.
Non a caso Maryam Namazie, un'esule iraniana già critica del patriarcato islamista, è stata bollata come islamofoba (le impedirono di parlare all'Università di Warwick) perché gli studenti la contestarono, e perché Il Guardian, soprattutto, si schierò con loro; un po' com'era successo quando la Bbc, dopo una precedente rivolta iraniana contro l'hijab obbligatorio, nel 2018, intervistò una delle manifestanti: lei disse "quando indosso l'hijab è come se fossi limitata, oppressa, quando non lo indosso invece mi sento libera"; ebbene: tutta la stampa inglese riprese le critiche del Muslim Council of Britain che aveva definito l'intervista della Bbc "islamofoba", questo perché aveva indotto a pensare "che l'hijab sia generalmente oppressivo". E non si deve pensarlo.