Per capire una città non si deve solo seguirla, ma a volte anticiparne il movimento. Anche là dove la sua andatura ci appare strana, irregolare, perfino irritante. Tale città diviene, allora, specchio della società, riflettendo qualcosa che la stessa società non riesce a descrivere e di cui, ciononostante, avverte il problema. Perché non abitiamo più la città ma solo la sua immagine, spesso frutto di una rappresentazione mediatica che ri-organizza i «pezzi di realtà» sotto fatti e titoli che possono «stare insieme». Un insieme che, pur senza alterare la realtà, ne restituisce un'immagine parziale.
In questa prospettiva abitare in città non vuol dire semplicemente ri-siedervi, al contrario significa alzarsi e camminare in essa, attraversarla. Per cogliere l'anima del luogo e riconoscere quanta (e quale) storia contengano i nomi delle sue vie. Per percepire un lontano richiamo che ci costringa a tornare sui nostri passi, in maniera più o meno consapevole. Perché ogni giorno, una città nuova nasce da quella vecchia, dalle paure e dalle visioni originando urbane tradizioni e singolari costruzioni. Due facce della stessa maschera, dove l'una interagisce con l'altra, trapassandone l'esistenza. Si tratta di rovesciare il nostro punto di vista. Non siamo noi a guardare la città, ma è la città a guardarci «interrogando»: che cos'è Milano?
Non si può rispondere a questa domanda se non si risolve la relazione tra intellettuali e politici. Una difficile relazione. Un intellettuale è un uomo di dubbi, critiche, solitudini, sfasato temporalmente. Perché è un uomo del passato e insieme del futuro. Il politico, invece, è l'uomo del presente. Del presente assoluto. Finge di vivere di promesse e problemi, in realtà si deve nutrire di piccole quotidiane certezze. Il politico, del resto, va avanti perché è utile. L'intellettuale no. Egli crede che ogni pensiero sia nomade, una tribù, il contrario di uno Stato.
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