Se scrivi D’Alema, s’offende «Repubblica»

di Luigi Mascheroni
Se dici D’Alema, ti scrive la Repubblica. Suscettibili i colleghi di largo Fochetti... Due giorni fa il Giornale, a firma di Alessandro Gnocchi e con il titolo «Si scrive Treccani, si legge D’Alema», ha svelato una piccola verità, sotto gli occhi di tutti, ma che finora nessuno aveva visto. O voluto vedere. E cioè la sovrapposizione quasi perfetta e per lo meno inquietante tra l’organigramma dell’Istituto Treccani e la fondazione Italianieuropei di Massimo D’Alema: stesso presidente (Giuliano Amato), stesso direttore editoriale (Massimo Bray), una dozzina di illustri personalità del mondo accademico, politico e imprenditoriale che siedono contemporaneamente nel consiglio d’amministrazione di un ente e nel comitato scientifico o redazionale dell’altro, e viceversa. L’unico nome che rimane fuori dall’elenco-fotocopia è quello dell’amministratore delegato di Treccani, Franco Tatò, lodato, ai tempi in cui era ai vertici dell’Enel, come «prototipo del bravo manager» dal suo affezionato Massimo D’Alema. Insomma, un lungo filo rosso che lega indissolubilmente l’Istituto fondato da Giovanni Treccani nel 1925 e la giovane Fondazione di cultura politica nata per volontà di D’Alema nel 1998.
E così - contraddizione solo apparente di un Paese politicamente tendente a destra e culturalmente pendente a sinistra - la gloriosa Treccani protetta da Mussolini e diretta da Gentile è finita nelle mani di Amato ed eterodiretta da D’Alema...
Di per sé nulla di male, puro lobbismo al quale gli italiani (europei) sono geneticamente abituati. Ma appena il Giornale l’ha detto, la Repubblica s’è offesa. Ieri il quotidiano di Ezio Mauro (solo per caso molto amico di D’Alema), citando la «anomala coincidenza» tra i vertici della Treccani e quelli della Fondazione Italianieuropei, ha prima liquidato i «consueti cliché» secondo i quali sono soliti ragionare i giornalisti del Giornale; poi ha raccolto un’anonima voce nella redazione della Treccani che non fa che confermare la curiosa «anomalia» («al di là delle congetture scandalistiche e comunque sbagliate, rimane l’impressionante sovrapposizione»); e infine ha accolto una excusatio non petita dello stesso Amato: «Che un istituto culturale abbia più nomi che partecipano all’attività di altre istituzioni culturali non è sorprendente, tutt’altro».
Dunque. A noi mancano di certo il rigore logico dei ragionamenti della Repubblica e l’acume politico del dottor Sottile, ma abbiamo la sensazione di aver colto nel segno, vista la piccata reazione degli amici di D’Alema, quando abbiamo rilevato la «curiosa anomalia»; poi abbiamo a nostra volta raccolto un’anonima voce nella redazione della Treccani («quando abbiamo visto i due organigrammi uno di fianco all’altro siamo caduti dalle nuvole. Certo il collegamento è innegabile. Come dire: carta canta»); e infine ci sentiamo di avanzare sommessamente qualche dubbio sull’operazione Amato-D’Alema, peraltro compagni di banco in più di un governo. Insomma, che una delle più prestigiose istituzioni culturali del Paese - per storia e tradizione patrimonio di tutti e non di una «parte» - sia così strettamente legata a uno dei più attivi think tank della sinistra, a noi non pare così «normale». Tutt’altro.
Si dice che il «nuovo corso» dell’Istituto Treccani, oggi di nuovo nella bufera per le note vicende del Dizionario biografico, sia da imputare al direttore editoriale - in entrambi i sensi: della Treccani e di Italianieuropei - Massimo Bray, solo per un’«anomala coincidenza» di origini pugliesi, come il collegio elettorale di D’Alema e la regione in cui Tatò nel 2004, sponsorizzato dai Ds, stava per essere candidato contro Raffaele Fitto... E poi la Repubblica se la prende perché abbiamo ironizzato sul «feudo máximo».
Comunque. Alla fine tra Amato e D’Alema è rimasto in mezzo, ecco la cosa grave, il Dizionario biografico degli italiani, investito negli ultimi giorni da pesanti polemiche dopo l’annuncio del nuovo «piano» per accelerare la conclusione di un’opera che si trascina ormai dal 1960 e si sperava potesse concludersi nel 2011 per il 150º anniversario dell’Unità d’Italia. Si sperava, perché è fermo alla lettera «M» e - ad andar bene - impiegherà un’altra decina d’anni ad arrivare alla «Z». Un monumento della cultura italiana che attualmente costa un milione di euro l’anno e ne perde circa 600mila: una (leggera) emorragia per tamponare la quale il dottor Sottile ha prescritto la sua cura a base di tagli. Ossia: chiedere a collaboratori esterni all’Istituto di «adottare» una voce del Dizionario per accelerare la conclusione dell’opera, riducendo personale e costi della redazione. Soluzione che ha fatto gridare allo scandalo alcuni, allergici al modello Wikipedia, e spaventato altri, preoccupati che in questo modo si tradisca quello «stile» e quella qualità Treccani garantiti solo da una redazione centrale che coordina il lavoro dei singoli studiosi.
Mario Caravale, direttore del Dizionario, al Giornale dice di condividere l’idea del presidente Amato, soluzione ineccepibile per ridurre tempi e costi: «Accolgo pienamente il progetto, ma faccio presente un rischio: la partecipazione volontaria di estensori esterni delle singole voci, magari non di altissimo livello, e quindi da vagliare e rivedere, comporterà una crescita e non una diminuzione del lavoro redazionale che ne garantisce la qualità».


A questo punto, su come conciliare i necessari tagli di personale con gli intoccabili standard scientifici, una proposta, magari, la potrà fare il management dell’Istituto Treccani. Chiedendo consiglio a quello della Fondazione Italianieuropei.

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