Ma se la storia è così perché la banalizza?

L’amarezza di Dario Franceschini è immotivata. La lettera che ci manda - bella, evidentemente scritta a cavallo fra l’emozione del lessico familiare e la razionalità del ragionamento politico - infatti, contribuisce, dopo l’intervento di Giampaolo Pansa, a elevare il livello di una polemica che in questi giorni si è incartocciata sui botta e risposta, sullo scambio di accuse, sulla riduzione del nodo più complesso della storia italiana a disputa di basso profilo. Franceschini fa bene a coronare il suo araldo, raccontando che il matrimonio di sua madre con un ex partigiano (e futuro parlamentare democristiano) rappresentava, a suo modo, una piccola-grande pacificazione. Non solo Pansa non lo nega, ma anzi, lo ha sostenuto con altri esempi anche nell’intervista di ieri. Non ha mai equiparato «le vittime innocenti dell’odio razziale e i loro carnefici». Spiega e ripete da anni: «Continuo a considerare la Resistenza - cito testualmente - la mia Patria morale».
Anzi, va detto di più. Ad essere onesti, la pericolosa «equiparazione» revisionista paventata da Franceschini, non l’ha fatta nemmeno Ignazio La Russa nell’ormai celebre discorso dell’8 settembre. E c’è grande differenza fra quel che ha detto Gianni Alemanno su fascismo e leggi razziali e quel che ha detto La Russa. Ovvero che chi scelse di opporsi ai nazisti e ai loro alleati costruì la democrazia in Italia, mentre invece chi - «in modo soggettivo e non equiparabile», ha specificato il ministro della Difesa - «scegliendo di arruolarsi nella Repubblica sociale, credeva di difendere la patria». Dice Pansa: «Quella scelta l’hanno fatta mezzo milione di persone, è grottesco etichettarli tutti come torturatori e amici dei nazisti». E qui si arriva alla collisione fra piccola e grande storia che ha «amareggiato» Franceschini. Pansa (e anche noi) è convinto che i dirigenti del Pd si siano lasciati trascinare da un bisogno di marcare identità (altrimenti avrebbero dovuto criticare anche Napolitano e Violante!). E Pansa crede (come noi) che la storia di questa guerra civile vada affrontata nella sua «complessità», senza strumentalizzazioni, prese di posizione manichee, opportunismi politici. Se ha citato Franceschini (e suo nonno), è proprio perché, da chi ha inscritta nel suo Dna la bellezza di una storia complessa, ci si aspetta una risposta non banalizzante. La polemica non è, come scrive Franceschini, fra chi «mette sullo stesso piano» chi scelse la Resistenza e chi scelse l’Asse e lui che non lo fa. Ma fra chi crede che oltre il giudizio politico che ognuno di noi dà di quelle scelte, si possa - dopo mezzo secolo! - assimilare, nel rispetto civile, sia i vincitori che i vinti.
Pansa ci ha scritto sopra una biblioteca, e sembra che continui a fare scandalo.

Ma questo stesso concetto lo espresse Palmiro Togliatti (!) quando decise l’amnistia che chiuse la guerra civile, e l’ha raccontato, in forma quasi lirica, Cesare Pavese, nella celebre e bellissima ultima pagina che chiude La casa in collina. Non si trattava certo, nel primo e nel secondo caso, di pericolosi «revisionisti».
Luca Telese

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