Se vince il no addio alle riforme

Chi difende le riforme costituzionali del centrodestra, non se la passa bene. Inevitabile. Una parte d'Italia riesce a farsi sentire solo in campagne elettorali ultrapoliticizzate e partecipate. Solo in questi casi riesce a farsi sentire. Altrimenti l'establishment con la sua stampa, con ampia parte dell'intellettualità, con un'egemonia reale anche sugli opinionisti tv, si compatta e trasmette un messaggio monocorde. Nonostante le posizioni in campo siano differenziate e anche intellettuali indipendenti come Angelo Panebianco e Sergio Romano sostengano che sia utile votare «sì» al referendum. Ma sono acuti che si ascoltano lo spazio di un attimo, poi la musica di fondo riprende: macelleria istituzionale, disfacimento dello Stato, autoritarismo strisciante. Questo il tono prevalente. Con un implicito invito anche agli elettori del centrodestra: se proprio non vuoi votare «no», almeno resta a casa.
Non è che manchino argomenti critici seri contro le riforme costituzionali approvate, sostenuti anche da persone impegnate a spezzare il conformismo politico egemonizzato dalla sinistra imperante in Italia. Ma sfugge, ai critici delle riforme, come la posta in gioco oggi vada oltre alla lettera delle norme da approvare o bocciare il 25 e il 26 giugno. La «lettera» di certe norme approvate in questi anni è in alcuni casi sicuramente da rivedere: ma non solo esiste una maggioranza di sinistra alle Camere che può esercitarsi a questo fine. Vi è anche la disponibilità dei leader del centrodestra a trovare accordi.
Il referendum in questo senso ha un valore di fatto indicativo: volete un premier meno soggetto ai diktat dei partiti? Volete norme antiribaltone? Volete un Senato federalista che non duplichi inutilmente il ruolo della Camera? Volete ridurre il numero dei parlamentari? Volete dei poteri delle Regioni nettamente distinti da quelli dello Stato in modo da porre le basi anche per un federalismo fiscale?
Alla fine sono questi i quesiti fondamentali su cui si vota: al di là degli articolati che li traducono in testo costituzionale e su cui vi è il tempo necessario per trovare compromessi. È per questo motivo che alcuni sinceri rinnovatori come il diessino Augusto Barbera hanno il mal di pancia: perché si rendono conto che votando «no», probabilmente ogni strada di riforma sarà sbarrata. D'altra parte i più seri promotori del «no» non lo nascondono. Claudio Rinaldi, giornalista di classe e intelligenza, dice: perché cambiare una Carta che ci ha garantito sessanta anni di benessere e pace? E a questa posizione (spesso frutto di complesse riconversioni intellettuali) si allineano in tanti che pure avevano denunciato i limiti del consociativismo inerenti a un sistema ultraparlamentarista, le inefficienze strutturali di un sistema economico-politico funzionante solo perché garantito dalla guerra fredda. Anche molti laudatores di Tangentopoli, grande carnefice della Prima Repubblica fondata dalla Costituzione (peraltro emendata solo in un punto significativo, previsto con saggezza dai padri della patria a difesa delle libertà politiche: l'immunità parlamentare), oggi sostengono che tutto andava bene nel migliore dei mondi possibili. Questa posizione, in realtà, è giustificabile solo in un pm come Armando Spataro che appunto si chiede: «Perché mai cambiare la Costituzione?».

Per chi apprezza (e ne trae potere) un settore dello Stato divenuto dominante anche rispetto alle istituzioni che rappresentano il popolo sovrano, l'affermazione è assolutamente logica. Per chi vuole uno Stato libero, efficiente e federalista, non tanto. E per questo vota «sì».

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