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La sedia elettrica di Dresda e Cassino

Dresda non è un città come le altre. È un destino tragico che non si è mai riusciti davvero a sanare. Dresda è come Cassino

La sedia elettrica di Dresda e Cassino
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La fabbrica di vetro di Dresda ha chiuso. Doveva essere, nei sogni millenari, il gioiello della Volkswagen equa e solidale, con l'idea di rinverdire la leggenda della Phaeton, fortunata berlina di lusso, ma questa volta con il motore elettrico. Qualcosa purtroppo non ha funzionato. L'auto del popolo e per il popolo si è dimenticata il popolo. Succede, soprattutto quando il furore ideologico non fa i conti con la realtà. La rivoluzione green è la scelta, solo in apparenza responsabile, voluta dall'aristocrazia economica e culturale. Non hanno calcolato che l'Europa da sola non poteva risolvere tutti i malanni, reali e immaginari, della madreterra. I capi della Volkswagen non avevano visto arrivare la crisi globale, i dazi trumpiani e soprattutto la strategia cinese sul mercato europeo delle automobili elettriche. Quest'ultima, in particolare, è stata più di una svista.

Ora c'è chi se ne frega della Germania e lo fa sottovalutando che siamo sotto lo stesso angolo di cielo. E poi Dresda non è un città come le altre. È un destino tragico che non si è mai riusciti davvero a sanare. Dresda è come Cassino. È la città sacra rasa al suolo dalle bombe dei liberatori. È il prezzo da pagare per sconfiggere nazisti e fascisti. È un martirio riconosciuto ma che non provoca pietà. La Katholische Hofkirch, cattedrale barocca sfregiata, e l'abbazia dove San Benedetto fa nascere il movimento globale del monachesimo.

Dresda e Cassino adesso sono legate dalla disgrazia dell'elettrico. Lo ha ricordato anche Giorgia Meloni ad Atreju. Volkswagen chiude Dresda e Stellantis tiene in piedi Cassino solo grazie alla cassa integrazione, con gli operai che lavorano sedici ore a settimana.

Dresda e Cassino sono anche il segno della metamorfosi inutile dei sindacati europei. Non c'è nessuno, tranne gli operai, che piange per le fabbriche che chiudono, ma sono lacrime che Landini non vede. È troppo impegnato a fare il leader immaginario di un partito politico.

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