«Confindustria, senza Fiat, non sarà più la stessa e anche se luscita di Marchionne ce laspettavamo, è giunto il momento di pensare alle esigenze delle aziende». Queste parole di un imprenditore, che in passato ha avuto ruoli di vertice a Viale dellAstronomia, rivelano che la «politica» di Emma Marcegaglia è giunta al capolinea e non solo perché lanno prossimo dovrà cedere il passo a un successore. Ma perché potrebbe cominciare una fuga senza precedenti dallassociazione.
Andiamo con ordine. Lo strappo è stato una sorpresa. Nelle scorse settimane, le diplomazie di Confindustria e del Lingotto si erano attivate perché la rupture fosse rinviata il più possibile, in modo tale da alimentare le speranze di non perdere la più grande azienda metalmeccanica italiana. La sottoscrizione dellaccordo interconfederale sui contratti ha invertito il corso degli eventi. Lintesa con Cisl, Uil e soprattutto Cgil non è piaciuta a Marchionne. Sia per la mancata retroattività dellapplicazione (che gli avrebbe evitato le cause in Tribunale) sia perché considerato troppo sbilanciato sul versante sindacale.
Marcegaglia ieri ne ha patito le conseguenze. Lumore ai piani alti di Viale dellAstronomia era pessimo. Lo si è visto dalla replica piccata con la quale il comitato di presidenza (il numero uno Fiat Elkann non ha ovviamente preso posizione e dal primo gennaio uscirà anche lui) ha rinfacciato a Marchionne di «non condividere» la scelta minimizzando il peso del gruppo torinese in termini di contributi associativi: solo l1% per complessivi circa 5 milioni di euro. Tutto qui? No, perché Confindustria non ha un bilancio trasparente, non si conoscono precisamente quali siano entrate e uscite e, perciò, è difficile affidarsi completamente alle sue cifre. Tanto è vero che, secondo fonti di settore, il gruppo Fiat ogni anno le firmerebbe un assegno di almeno 20 milioni.
Non è una questione di soldi, ma di prestigio perché Confindustria dal primo gennaio perde lazienda che le ha fornito due presidenti di «spessore» come Gianni Agnelli e Luca Cordero di Montezemolo e due direttori generali come Maurizio Beretta e Paolo Annibaldi. Senza dimenticare che in passato era sufficiente un sussurro dellAvvocato per riportare la barra a dritta quando si eccedeva nel filosindacalismo. I big di Viale dellAstronomia, che adesso si chiameranno Eni, Enel, Poste (tutte aziende a maggioranza pubblica e «politica»), sapranno fare la voce grossa con la Triplice?
Il problema è che adesso rischia di aprirsi la fase più difficile e tormentata della storia centenaria della confederazione degli industriali. La grande fuga potrebbe essere appena cominciata e le avvisaglie ci sono già state nei mesi scorsi con le uscite di alcuni big (Ibm e il montezemoliano Punzo a Napoli) e i malesseri dilaganti in Veneto e Lombardia. La linea troppo politica e poco attenta alle esigenze della piccola e media impresa, la maggioranza degli iscritti, ha creato molto malcontento. Che si è tradotto in uscite verso la concorrente Confapi («Abbiamo a cuore solo la difesa degli iscritti», gongola il presidente Paolo Galassi) per le pmi del Nord e verso Confcommercio per chi opera nei servizi come alberghi e turismo.
Il futuro potrebbe non essere troppo dissimile dal passato. Il candidato numero uno è lattuale presidente di Federchimica Giorgio Squinzi, patron della Mapei. La sollecitudine nella chiusura dei contratti di settore con lok della Cgil non piace alla base che preferisce il modello Marchionne («Chi ci sta ci sta e chi non ci sta è fuori»). Una vittoria di Squinzi potrebbe inasprire i contrasti interni.
Il problema è trovare unalternativa. Chi pesa davvero in Confindustria è la milanese Assolombarda che potrebbe chiamarsi fuori dai giochi tentando la strada della difesa autonoma del business Expo 2015 senza compromessi «romani».
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