Sergio Rubini infido usuraio tra gli avidi parenti serpenti

Cinzia Romani

da Roma

Che cos’hanno in comune Hitchcock e la Grecia, ovvero il re del giallo e il regno della tragedia? La terra di Sergio Rubini (da venerdì nelle sale), l’ultimo film del regista, attore e sceneggiatore di Grumo (nella provincia barese), dove thriller e sciagura si mescolano con sapienza artigianale. Non a caso l’atmosfera allarmante, che grava su questa produzione Fandango, in collaborazione con Medusa Film, viene a ogni passo sottoscritta dalle musiche di Pino Donaggio, maestro veneziano delle colonne sonore misteriose. E il rosso, non sai se porpora di sangue che scorre o di vino corposo sulla tavola imbandita del Sud, serpeggia da subito nei titoli. A far capire che qui, a Mesagne, dove i quattro fratelli Di Santo devono spartirsi la masseria paterna, le cose sembrano in un modo, ma sono in un altro. E ci scappa pure il morto, mentre tutti tirano un respiro di sollievo, tanto si trattava di Tonino l’usuraio (un Rubini perfetto), uno con la minaccia in bocca e la forfora sulla giacca.
«Mingherlino come sono, mi pareva non avessi il fisico del ruolo per un personaggio del genere» si schermisce Rubini, anche autore del soggetto e cosceneggiatore della pellicola, girata tra Nardò, Lecce, Mesagne e Brindisi. Ma bisogna vederlo, invece, l’attore classe 1959, già marito della collega Margherita Buy, quando s’incarognisce, secco e storto, sibilando in dialetto che lui può tutto. Anche raggiungere in quel di Milano (a scopo mazziate) l’ignaro Luigi (Fabrizio Bentivoglio), il professore di filosofia che non si fa i fatti suoi e che, invano, media con i rissosi fratelli Michele (Emilio Solfrizzi) e Aldo (Massimo Venturiello), intanto che Michele (Paolo Briguglia) fa volontariato. Sempre dalle parti della Sacra Corona Unita ci si trova e guai a sottovalutare certa gente, che magari legge Pascal.
«I miei personaggi sono vitali e l’eredità greca del tragico si nota» dice Rubini, che qui ha travasato le proprie esperienze autobiografiche. «A un dato momento la mia famiglia ha cominciato ad essere aggressiva, richiedendo la mia presenza. Capita che, da figlio, si passi a genitore. E so quanto la proprietà divida: mio padre non è padrone di nulla. Come me. Noi affittiamo tutto» chiarisce l’artista, tornato in coppia (dopo La stazione) con un altro pugliese del giro cinematografico, il produttore Domenico Procacci. E se gli effetti devastanti della proprietà sono noti (da Verga a Pirandello è tutto un insistere sulla «roba», mentre il regista cita Dostoewskij), stavolta è chiaro che i fratelli coltelli torneranno uniti, una volta sbarazzatisi dell’eredità paterna. «Un’eredità dolorosa, perché indivisibile. Forse il padre vuol costringere i figli a trovarsi l’un l’altro» spiega Rubini, per il quale «la Puglia è un luogo della memoria, dal quale sono partito a diciott’anni».
Eppure, La terra è un’ode alla pugliesità. Le masserie trasudano l’affetto carnale delle care vecchie cose: dalla brocca rotta al sacco di mandorle; dalle olive grinzose alle greggi di caprette, il loro odore quasi arriva dallo schermo. «Fare un film è un gesto poetico» premette infatti Bentivoglio, che pennella il suo personaggio con tratti essenziali, portandolo da ambrosianone mite a capofamiglia deciso. A fargli da alter ego, in gonna e chignon da signorina bene, Claudia Gerini: «Ho amato ispirarmi alle bionde chic di Hitchcock», spiega l’attrice, presto in un film di Roberto Andò.


Ma come mai, ancora una volta, l’omicidio resta impunito? «Questo delitto senza castigo sancisce la distanza siderale tra l’uomo e Dio. La razza umana pone domande al cielo, ma risposte non ne arrivano», riflette Sergio Rubini, confermando la piena maturazione di sé.

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