Gianandrea Zagato
I «compagni» sorridono al Presidente. Per ognuno di loro Filippo Penati ha una parola, un abbraccio e una battuta. Ma quelle per Gabriele Albertini non se le gioca con i suoi. Preferisce centellinarle a tavola, davanti a un risotto con ossobuco alla milanese «non di quelle porcherie che servono in giro per lItalia».
Uscita con premessa: «Io voglio bene a Gabriele. Lho persino detto pubblicamente in un dibattito, qui alla Festa dellUnità. Mi dispiace che non sia sereno, che sulla vicenda Serravalle sia prevalsa la ripicca personale. Sbaglia perché così non raccoglie le opportunità del progetto». Opinione che il presidente della Provincia, tra un bicchiere di vino e laltro fa seguire da un desiderio: «Voglio il dibattito televisivo con il sindaco anche se per me è un rischio: lui non ha più niente da perdere perché il suo mandato è a fine corsa mentre io ho ancora quattro anni di governo...e poi ho cinquantadue anni e nessuna intenzione di andare in pensione».
Ma, attenzione, secondo Penati è improbabile che siano due ore davanti alle telecamere a far luce sulla scalata di Serravalle, su quella scelta politica-finanziaria che il primo cittadino di Milano ha portato davanti alla Corte dei Conti: «Voglio che la signora Maria alla fine dica ma chel Penati lì lè propri un brav fioeu. Chiaro, no?». Vuol dire che ribatterà alle carte, ai numeri e ai dati di fatto che, probabilmente, Albertini ricorderà ai telespettatori? «Interruzioni pubblicitarie ogni venti minuti aiutano più lo zapping che la concentrazione di chi sta davanti allo schermo. Una buona strategia di comunicazione non è quella di ribattere per centoventi minuti alle carte con le carte e ai numeri con i numeri. Chi lo fa sbaglia perché non conquista così la concentrazione del pubblico».
Convinzione rivelata al caffè, prima del grappino e seguita da una seconda certezza: «Con Roberto Formigoni, be su Serravalle sarebbe stato un altro film». «Roberto è un politico, sa quindi essere sereno e mai scomposto anche nei confronti più aspri. La prova? Il caso Cè che affronta con determinazione. Chiaro, naturalmente, che dietro cè un progetto politico...». E giù con ipotesi di strategie nazionali che al tavolo di Trulli e Navigli declinano, gioco forza, in domande con risposta in salsa meneghina. «Io sindaco? Ma va là, sono appena arrivato a Palazzo Isimbardi... Franco intervieni, salvami...». Chiamata in correo per Franco Maggi, il portavoce: entra in scena e riconferma il Penati-pensiero, mentre il presidente accompagna il coro di Bella Ciao, «e con la Guzzanti ho pure cantato Contessa, anzi lei cantava e io muovevo la bocca... la so ma sono stonato».
Confidenze di un presidente che per una battuta «si taglierebbe la mano» ritorna in campo: «Mettiamola così: sarebbe laffermazione della debolezza del centrosinistra, come se non ci fosse un altro candidato da far scendere. Poi significa tagliarsi gli zebedei con quelli della neo-provincia di Monza e Brianza che ritornerebbero al voto. No, non è cosa... forse meglio essere il vicesindaco». Losservazione del cronista, «se il sindaco è presentato dai Ds, il vice è della Margherita», non spegne lilarità: «Milano ha voglia di cambiare, non ne può più di chi non sa amministrare. Dieci anni fa la squadra di Albertini era davvero temibile, era il meglio sul mercato: adesso, è altra cosa. Comunque, dipende anche da chi si candida dallaltra parte».
È lora del toto-nomi del centrodestra: «Fedele Confalonieri? Persona colta e gradevole, un grande appassionato e conoscitore della lirica: un milanesone al cento per cento che però ha declinato linvito», «Carlo Sangalli? Scelta ineccepibile non credo però che il presidente della Camera di Commercio e dellUnione del Commercio voglia mettere la sua data di nascita sui manifesti», «Letizia Moratti? Sicuri che piace ai milanesi? Che abbia appeal sui giovani? Ma si candida per davvero?» Interrogativi di chi sta in quella coalizione che dovrebbe candidare Umberto Veronesi, «no comment». Leit motiv costante con il sì alle primarie - «sarebbe cosa buona e giusta» - anche della terza grappa, quella delle due di notte con i volontari della kermesse della Quercia in attesa che Filippo molli. Ma lui resiste e sogna «la conquista di Palazzo Marino perché non è più tempo di lasciare ai ragionieri la politica culturale di questa città».
Quella dove il prefetto Bruno Ferrante è spesso diventato punto di riferimento della società, «penso alla vicenda dei tranvieri o a quella della Scala, con Confalonieri che mi dicono non partecipa più al cda e con Tronchetti Provera che abbandona la partita». Valutazioni di stima verso il prefetto condivise da larga parte del centrosinistra che sperava di spingere il rappresentante del Governo alla candidatura.
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