«Serve una resa dei conti tra riformisti e radicali»

da Roma

Clima pesante, umore sotto i tacchi. Tira un’ariaccia per i riformisti dell’Unione ma il radicale Daniele Capezzone, presidente della commissione Attività produttive, non si stupisce: «Chi semina vento, raccoglie Caserta». E non è una battuta surreale, spiega, è l’equazione impossibile di un centrosinistra che non trova il suo Blair.
Deluso dal vertice?
«Ha ragione Emma Bonino, non si può essere delusi perché non ci eravamo illusi prima. Il problema infatti nasce molto prima di Caserta».
Eppure nel conclave qualcosa l’avete ottenuto.
«Pochissimo. Un’accelerazione alla mia legge sulla sburocratizzazione, “sette giorni per un’impresa“, e l’attrazione degli investimenti esteri messa come priorità nell’agenda di governo. Per il resto...».
«Ha vinto ancora l’ala massimalista?
«Io non darei la colpa a Rifondazione. Sbaglia chi pensa che Franco Giordano somigli alla Thatcher, lui fa il suo lavoro. Chi finora è mancato è la componente riformista. Che fine hanno fatto Ds e Margherita? Questa è una strana partita in cui una squadra è in campo e sta giocando, l’altra è rimasta negli spogliatoi».
Il risultato quindi secondo lei è scontato?
«Se non cambia qualcosa, direi di sì. La spallata non ci sarà, però qualcuno dovrebbe chiedersi cosa vogliamo fare. Ma non è una questione di Caserta, noi stiamo pagando cinque anni di assoluto immobilismo politico. Nessuna sinistra liberale nasce se manca, prima, una resa dei conti, uno scontro vero tra innovatori e conservatori nel periodo in cui ci si prepara ad andare la governo. Invece di prepararsi a cambiare il Paese, si è fatto solo dell’antiberlusconismo. Invece di fare chiarezza, si è voluta giocare la carta del tenere tutto insieme, senza il coraggio di una scelta e di una sfida, e ora i nodi vengono al pettine».
Cinque anni buttati?
«Anche di più. Il problema risale al 1997, quando il congresso dei Ds si aprì con gli accenti blairiani di D’Alema e si chiuse con la vittoria delle posizioni di Cofferati. E gli errori sono proseguiti anche in tempi più recenti».
Quali errori?
«Sono tanti. Basta però ricordarne tre. Il primo nell’ultimo mese della campagna elettorale, quando masochisticamente è stato mandato Visco in tv a parlare di tasse. Quei discorsi sulla politica fiscale ci hanno fatto perdere il sette per cento: altri tre giorni e vinceva la Cdl. Il secondo è maturato d’estate. Dopo aver varato un buon Dpef che prevedeva di contenere la spesa pubblica con tagli e non con tasse, è stata partorita una Finanziaria di segno opposto. Terzo, la riforma delle pensioni, che viaggia da un rinvio all’altro».
Pure le liberalizzazioni di Bersani sembrano in stallo.
«Certo, non sono le ricariche telefoniche il cuore del problema e non basta liberalizzare il prezzo della benzina se non si riducono le accise. Però la lezione vale anche per il centrodestra, anche loro devono usare il periodo dell’opposizione per darsi un profilo, come ha fatto Cameron.

Non basta compiacersi delle difficoltà del centrosinistra: se l’Unione vara delle microliberalizzazione, la Cdl che fa, ne chiede di più o si schiera con i tassisti?».
I riformatori dunque mancano da tutte e due le parti?
«Sì. L’unica speranza è il tavolo dei volenterosi, cioè far lavorare insieme gli innovatori dei due poli per cambiare questo Paese».

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