Sexy, liquido o cinico? Il Pd continua a sbagliare aggettivo

RomaAllora, ’sto piddì, come lo famo? Lo famo strano, cioè all’americana, come voleva Vartere, anzi Uolter, Veltroni? I care, Barak Obama, la «vocazione maggioritaria», poi si sa com’è finita. Oppure, lo abbelliamo un po’? Enrico Letta infatti lo vorrebbe «sexy», per farci poi chissà che cosa. O magari restiamo sul classico, come da tempo consiglia il segretario. «Voglio un partito che funzioni, come l’Avis o una bocciofila», ha detto un anno fa Pierluigi Bersani: in Emilia funziona da una vita, in Italia bisogna stare attenti a non perdere il pallino. E se Massimo D’Alema, più concretamente, lo preferisce «cinico», è stato Goffredo Bettini l’altro giorno a trovare la soluzione: «Voglio mettere in campo una proposta ancora più chiara, un partito-calamita». Ecco finalmente la chiave, ecco l’uovo di Colombo: che cosa c’è meglio di un bel magnete per attirare i voti liberi nell’atmosfera?
Dunque, in attesa di trovare la linea giusta e di scegliere tra Casini e Di Pietro, il Partito Democratico cerca l’aggettivo migliore, l’autodefinizione più calzante. Un dibattito futile? Forse. Ma su una cosa Bettini ha sicuramente ragione: «La sinistra in questo momento non riesce a raccogliere i frutti di una crisi della destra». E difatti, come si vede chiaramente in questi giorni, il Pdl è «costretto» a interpretare le due parti in commedia, la maggioranza e l’opposizione. Il centrosinistra resta ai margini.
Come rientrare nel gioco? Cambiando ancora pelle? Secondo Gianluca Susta, deputato europeo, «il Pd sta perdendo l’intuizione originaria». Il problema è capire quale era. A essere pignoli, la questione non è di oggi ma viene da lontano. Basta pensare alla famosa «doppiezza togliattiana», basterebbe ricordarsi pure di Enrico Berlinguer e del suo «partito di lotta e di governo». O anche, dopo la confluenza di Ds e Margherita nel nuovo contenitore, alla scelta mai fatta sulla collocazione internazianale: entrare o no nel gruppo del Pse? Poi, la decisione sul tipo di struttura da costruire: un partito leggero, nuovo movimentista, o uno più concreto e tradizionale, fatto di sezioni e tessere? Bersani, si sa, propende per il secondo modello: «Basta con l’idea del partito liquido, altrimenti ci facciamo una bella bevuta e arrivederci e grazie».
Così, quando le scelte di mercato sono difficili, a volte è più facile cambiare il nome della ditta. È successo quando il vecchio Pci è velocemente diventato Pds prima e Ds poi. Faceva finta di essersi confuso persino D’Alema: «Ds, o come diavolo si chiama adesso...». E chi ha scordato quell’altro tormentone: la Cosa, la Cosa due, la Cosa tre. Qualche anno fa Giuliano Amato, all’epoca presidente del Consiglio, attaccò pubblicamente le varie liste beautiful che spuntavano qua e là nell’Italia di centrosinistra per iniziativa dei sindaci. Erano le «Centocittà», Amato le chiamò in tv «centopadelle».
Intanto, in attesa della denominazione più efficace, si litiga anche su una questione più importante, il futuro cavallo per Palazzo Chigi.

È bastata l’autocandidatura di Vendola, che tra l’altro non è del Pd, per far salire la pressione interna: i veltroniani aprono a Nichi, l’ala liberal chiede di guardare a Obama, gli ex margheritini non vogliono diventare socialisti e minacciano ancora di andarsene. Sì, famolo strano, ’sto piddì.

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