"Siamo diventati poeti e cantori: così abbiamo salvato il bizantino"

A Calimera il griko è stata la parlata dell’infanzia dei più poveri

"Siamo diventati poeti e cantori: così abbiamo salvato il bizantino"

da Calimera (Lecce)

Il paese che si chiama «Buongiorno» dista mezz'ora di macchina da Lecce ed è la porta di una piccola Grecia nascosta, circoscritta in una manciata di Comuni uno in fila all'altro. Buongiorno, Calimera: il benvenuto è già contenuto nel nome del primo paese di questa sorprendete isola linguistica, la Grecìa salentina, con l'accento sulla i, dove gli anziani parlano un idioma che non è greco moderno e nemmeno esattamente l'antico: è il griko, perché loro, si raccontano, sono i veri «ultimi bizantini d'Italia».

Gli arrivi dalla Grecia furono costanti nei secoli, ma le prime testimonianze certe di colonizzazione risalgono al settimo secolo dopo Cristo. Ed è in quell'epoca che si è radicata la lingua che sopravvive da milletrecento anni.

Per sentire questa parlata musicale in cui si trovano tracce della lingua di Erodoto, dove il cuore è cardia e tu sei esù, bisogna fermarsi nella piazza principale di Calimera. Davanti al circolo di lettura del paese, in posizione di sentinella sulle sedie di strada che non si trovano più se non nei piccoli paesi del sud Italia, gli ultimi griki stanno decidendo se sia già l'ora di giocare a carte o se sia meglio bere un caffè. Sopra di loro un cielo in movimento. Ammassi di nuvole giovani corrono in un vento che lava l'aria, e che loro chiamano anemo.

La piazza è relativamente moderna, ma guardando verso il centro storico si scorge una sequenza di piccole case bianche. Più in là, file di ulivi e muretti a secco conducono alle altre enclavi della Grecìa. Mario e Antonio raccontano il loro bilinguismo particolare: «Quando giochiamo a carte, noi sempre in griko parliamo. E anche quando ci dobbiamo sfottere». Uso triviale a parte, questa è la lingua di un grande miracolo, un idioma custodito solo con l'oralità: parlato dai nonni ai bambini, e da quei bambini ai loro nipoti, armonioso come nessuno, non assimilabile al greco che ora si parla ad Atene, non traducibile nell'alfabeto di Omero. Per questo unico al mondo.

Il griko è stata la prima lingua della vita per la maggior parte dei frequentatori del Circolo di lettura di Calimera: «A sei anni racconta Mario, emigrato per trentacinque anni in Svizzera, come tanti paesani in prima elementare non sapevamo una parola di italiano. I nostri nonni parlavano solo griko. E lo stesso i nostri genitori. Era una lingua solo parlata. Non si scriveva mai. L'analfabetismo era al 70-80 per cento». Erano gli anni a cavallo della Guerra. A scuola «ci sentivamo diversi perché non parlavamo l'italiano. Nelle case del sindaco e del farmacista era invece proibito parlare il griko. Le maestre ci dovevano insegnare le lettere con le aste». Le due lingue creavano un abisso tra le classi sociali e i più piccoli non riuscivano nemmeno a comunicare tra loro. Nelle scuole si arrivò addirittura a bacchettare sulle dita i bambini a cui scappava una parola in griko. Mentre adesso sulla tutela della lingua ellenica di Puglia si imbastiscono leggi e si cercano strade per salvarla dall'estinzione.

Proprio per non farla morire, alcuni appassionati sono diventati poeti e cantautori. Il primo a intuire che quel segreto linguaggio dovesse essere catalogato per farlo sopravvivere alla modernità fu il signor Vito Domenco Palumbo: nei primi anni del Novecento girò di casa in casa per trascrivere i principali vocaboli della parlata degli anziani. La lingua dei bizantini si insegna ora a scuola, ma «in forma di canzoncine», sospirano i vecchi griki. L'isola linguistica è infatti inserita tra le minoranze da tutelare dalla legge 482 del '99. E' comunque qualcosa, o molto più di niente, ma la vera memoria è affidata ai poeti. Come Cici Cafaro di 94 anni. «L'altra sera alla festa della taranta ha anche cantato!», informa Tonuccio riferendosi ai festeggiamenti di san Brizio, il patrono di Calimera.

Passano pochi minuti e si materializza Cici, il poeta contadino. A Calimera le voci, grike o italiane che siano, corrono veloci, e qualcuno è andato a chiamarlo. Le sue poesie sono appese negli ospedali di tutta la provincia, si riempie di orgoglio: a Maglie, a Tricase. A Lecce, i dottori che lo hanno visitato sono rimasti incantati, e anche nella sala di attesa del medico della mutua non mancano i versi di Gigi Cafaro. «Le maestre ci dicevano che il griko degrada le persone ricorda - Ma io ho iniziato a scrivere in tutte e due le lingue. Se vieni a casa sai quanti manoscritti tengo? Ottanta».

Cafaro il poeta è riuscito addirittura a gemellarsi da solo con un paese greco, Kalamata. «La nostra Festa dei lampioni l'ho portata in Grecia. Mi hanno trattenuto là venti giorni». Sequestrato in terra madre come un figlio restituito dal mare. E gli scambi continuano sempre: arrivano addirittura pullman da Otranto per le visite culturali dei parenti di Grecia ai griki salentini.

Nella Casa museo della civiltà contadina e della cultura grika di Calimera si comprende qualcosa in più di questo legame di codici espressivi con l'Ellade. Nei dintorni del paese è stata trovata una Pietra forata, un monolite calcareo con un foro al centro di 30 centimetri, ora conservato nella piccola chiesa dedicata a San Vito. La pietra forata era già presente nei culti neolitici come simbolo dell'utero della terra, dea madre della fertilità, ma è ben radicata nella tradizione dell'Antica Grecia, dove si trovano esemplari anche a Creta e a Cipro. Nella chiesa di San Vito tutti i lunedì dell'Angelo gli abitanti di Calimera e dintorni celebrano i riti pagani dedicati alla fertilità passando attraverso la pietra sacra al ritmo di canti e balli griki. Vito Bergamo, che accompagna nella visita al museo, mostra l'album con le foto di Pierpaolo Pasolini, che venne qui a Calimera per studiare la lingua della Grecia salentina «quindici giorni prima di morire».

Custode delle tradizioni e dei suoni bizantini è l'associazione Parco Palmieri di Martignano, che ogni anno organizza una rassegna di cinema e laboratori. In uno spot documentario un turista tenta di raggiungere la Grecìa dalla costa con l'aiuto di un navigatore satellitare che parla griko. Quando arriva, chiede informazioni a una bambina che gli dice «I don't under stand you». «Non vogliamo illudere nessuno spiega il presidente, Pantaleo Rielli chi parla griko é una minoranza. I turisti non devono pensare che arrivando qui, sentiranno tutti parlare una lingua speciale». La lingua lo è, speciale, ma il griko non è un prodotto da spacciare come marchio local: piuttosto è una rarità, un'eccezione linguistica, da proteggere.

L'anomalia di Calimera e dei paesi vicini è che un idioma antico si è mantenuto vivo nei secoli nonostante il territorio sia pianeggiante e ben raggiungibile dalle città, certamente non isolato. Il documentario Evò ce Esù, prodotto da Parco Palmieri, ha attirato una grande attenzione nei festival nazionali e racconta perfettamente questo fenomeno. «Qui il griko si è conservato perché gli arrivi dalla Grecia sono stati continui racconta in Evò ce Esù il direttore del museo di Calimera, Silvano Palamà - Non arrivavano da conquistatori, ma spesso in fuga, fino all' ondata di monaci dalla Cappadocia».

Rocco de Santis è cantautore griko, di Sternatia, il paese dove la lingua greca si può sentir parlare più frequentemente rispetto ai borghi imparentati. La tradizione musicale è solida e alimentata continuamente. Chitarra, tamburelli, filarmonica, gli strumenti più utilizzati.

Rocco sogna spesso in griko, soprattutto quando nella sua mente si compongono situazioni familiari. «Mio padre era poeta, in casa si parlava sempre griko».

Di suo fratello Gianni, che con lui componeva e suonava, si diceva che sapesse trasformare una lingua invecchiata in «parole usate per il presente». «Il griko è la lingua dell'anima, del cardia», rispondono tutti gli ultimi parlanti attivi. Ed è questa, più della grammatica, la forza da trasmettere ai bambini di Grecìa.

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