«Siamo noi urbanisti i peggiori killer delle città moderne»

Gli urbanisti sono i killer della città. E lo dice uno di loro, anche se il comune cittadino, da decenni abituato alla venerazione nei confronti di questa figura demiurgica della modernità, fatica a individuare i contorni del crimine commesso. Che pure è sotto gli occhi di tutti: la città di oggi, degradata, squilibrata, con il suo centro antico morente, svuotato di persone e assediato dal traffico, e le periferie in mostruosa espansione, mentre i capannoni industriali e i mega centri commerciali divorano la campagna.
Che cosa hanno fatto gli urbanisti? Pier Luigi Cervellati, architetto, docente di progettazione e riqualificazione urbana e territoriale alla facoltà di architettura di Venezia, negli anni Sessanta e Settanta è stato assessore all’urbanistica nella «Bologna rossa» dei sindaci comunisti Dozza, Fanti, Zangheri, ed è autore di piani spesso contestati per la riqualificazione dei centri antichi, da quello ormai storico di Bologna al recentissimo di Senigallia. Urbanista pentito, all’inaugurazione della mostra milanese «Sezioni verticali» dell’artista francese Yves Bélorgey ammette di appartenere alla categoria dei killer di città.
«Abbiamo sbagliato tutto - dice - Non abbiamo saputo attuare una pianificazione urbana efficace, non abbiamo saputo affrontare il fenomeno dell’urbanesimo, lo sviluppo del traffico privato. Siamo diventati subalterni al potere politico e a quello del mercato, cioè speculativo. Il risultato è un “non luogo” dove la città non esiste più, sostituita da agglomerati urbani paurosamente identici in ogni parte del mondo».
Tutto questo però accade a partire dal Novecento, proprio il secolo in cui l’urbanista diventa figura centrale e venerata, da Gropius a Le Corbusier. Dove sta l’errore?
«Proprio nel sentirsi demiurghi, nella mancanza di umiltà. Gli urbanisti hanno elaborato piani sulla carta prescindendo dalle persone. E questo è il primo crimine, soprattutto se si confronta il loro operato con quello dei grandi creatori di città del passato. Come il Borromini, creatore della meravigliosa Roma barocca, che prima di creare andò a bottega dal Maderno. È così che da Roma antica in poi in Italia si sono costruite in duemila anni le più belle città del mondo. Ci abbiamo messo cinquant’anni per distruggerle».
E quando inizia lo scempio?
«Dalla fine degli anni Cinquanta. Gli anni della ricostruzione e poi del boom edilizio e delle infinite varianti ai piani regolatori, fino ad allora ancora abbastanza rigorosi, ancorati alla legge urbanistica del 1942».
Ma furono anche gli anni della crescita demografica e della fame di case...
«Ed è in quegli anni che la periferia cresce a dismisura, dilatandosi intorno alla città storica. Ma la crescita demografica si è interrotta, mentre noi urbanisti abbiamo continuato a produrre piani regolatori come se dovesse essere infinita. Non è così. Dal 1950 la popolazione italiana è cresciuta del 20-25 per cento, passando da 48 a 56 milioni di abitanti. Le città sono cresciute del 500 per cento».
Frutto di pura speculazione?
«Anche di previsioni errate e di piani regolatori modificati a colpi di varianti. Si trova sempre un architetto disposto a firmare una variante. È anche vero che le condizioni di vita dei cittadini sono cambiate. Nell’Italia pre-bellica e post-bellica si abitava stretti, con scarsi servizi igienici, sia nelle case povere che nei palazzi nobiliari. Adesso abbiamo il secondo e il terzo bagno, la seconda e terza casa. In compenso abbiamo perduto la città».
Ma quale città abbiamo perduto? Quella che oggi identifichiamo con il centro storico?
«Centro storico è un falso concetto. Parliamo della città qual era prima di avere perduto la sua caratteristica di luogo di appartenenza e di identificazione. Che si articolava intorno alle parrocchie, la città del vicinato, delle piazze, dei bambini che potevano giocare nelle strade, dei quartieri che costituivano piccole, vivaci comunità, delle botteghe e degli artigiani. Questa città, oggi divenuta “centro storico”, è fatta di banche e negozi di lusso, è voracemente “consumata” di giorno e deserta la sera, mentre la popolazione si arrocca nei casermoni condominiali o nelle villettopoli».
Perché ce l’ha con le villette, scusi?
«Perché la villettopoli è altrettanto alienante dei casermoni, fatta di solitudine, di separazione. Ci si arriva in macchina, si apre il cancello elettronico, ci si rinchiude dopo avere attivato l’allarme. Penso alla paura che aleggia sulle villettopoli del ricco Veneto. La villetta non è né la villa signorile circondata da un vasto parco, né la casetta suburbana con il suo orto. Le villettopoli distruggono la campagna un tempo polmone della città».
Dunque tutta l’architettura contemporanea è da bocciare?
«Esistono architetture contemporanee molto belle, ma nessuna bella architettura può salvare una città sbagliata. Il grattacielo di Libeskind non renderà Milano più bella».
E allora, da urbanista pentito, lei che cosa suggerisce?
«Non costruire più. Abbiamo divorato anche troppo territorio. Basta con i nuovi quartieri costituiti da blocchi uniformi, basta con i mega capannoni industriali, basta con le villette.

Riutilizziamo l’esistente, le ex fabbriche, le ex caserme, riqualifichiamo i luoghi degradati o dismessi. Bisogna trasformare la periferia in centro e riconsiderare la metropoli nel suo vero significato che non è città sempre più grande ma città madre di città».

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