Sinfonia d’opposti, Oriente e musica tecno

Quasi rammenta Rabindranath Tagore - «vogliono legarmi a codici e leggi/ ma io fuggo: solo all’amore voglio arrendermi» - questo Il vuoto, nuovo album di Franco Battiato, d’indicibile bellezza. Tagore che cantava «il nuovo giorno ci invitava a salpare su una barca/ verso nessun luogo e nessun fine». E Battiato, che fin dalle sue opere liriche, Genesi, Gilgamesh, Il cavaliere dell’intelletto, esplorava non meno arcani itinerari verso la libertà e il mistero dell’Assoluto, fuor dalle logiche illogiche del contingente che ci imprigiona.
Così Il vuoto è in fondo la quarta opera del maestro catanese: basterebbe sottendere al flusso delle canzoni un qualche contrappunto scenico, per visualizzarne la potenza plastica dei colori e dei ritmi, delle movenze e delle atmosfere. E quanto alla trama, c’è già tutta: nei testi, scritti a quattro mani col filosofo Manlio Sgalambro, e nelle musiche, ove il genio poliedrico di Battiato mescola con invitta dialettica narrativa ritmi tecno e squarci operistici, echi d’Oriente e Tchaikovskij, la Royal Philharmonic Orchestra e due gruppi rock, gli Fsc e le Mab. Fino a fare dell’album una sinfonia d’ossimori, e a restituire anche così l’immagine d’un mondo sempre più spoglio d’identità.
Un mondo «vuoto di senso» e permeato di «senso di vuoto», chiosa infatti il maestro, nel brano che apre il disco e gli fornisce il titolo: donde l’immagine di un’umanità malata di «collera e paura, stress/ primordiali malesseri». Da qui parte il racconto, e a riprova Battiato esplora in I giorni della monotonia la caduca magia dell’amore, con la voce che sale in volute e spire progressive, poi s’arrende ad una delusa orizzontalità. Indi ricalca, in Niente è come sembra, il tremendo vanitas vanitatum dell’Ecclesiaste («niente è come appare/ perché niente è reale»).

E ancora nel passo elastico di The game is over, in Aspettando l’estate e nell’ariosa Tiepido aprile («si fa chiara la mente»: donde lo schiarirsi graduale dei suoni, il loro incedere verso una luce aurorale) dice dell’attesa di quell’altrove misterioso in cui si coagula «lo stato che ascende alla Gioia». Insomma la spiritualità assoluta, lo spazio metafisico in cui le miserie s’annullano e dove contrasti e alterità, annuncia il brano conclusivo, sfumano «dentro stati di Gioia/ senza Luce né Oscurità».

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