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La sinistra italiana esulta ma si illude Con il giustizialismo ha sempre perso

La scelta della Corte costituzionale, che ieri ha azzoppato il legittimo impedimento, rientra nel filone anti Cavaliere che spacca il Paese e alimenta il sospetto della via giudiziaria come scorciatoia per la conquista del potere. E ora cosa succederà al governo? PARTECIPA AL SONDAGGIO

La sinistra italiana esulta ma si illude 
Con il giustizialismo ha sempre perso

La sentenza della Corte costituzionale di ieri non ha soltanto incrinato pesantemente lo scudo a tutela del diritto e del dovere di svolgere liberamente le proprie funzioni da parte delle alte cariche dello Stato. Ha anche scalfito in profondità una più generale difesa, meno contingente e occasionale, di ognuno di noi dal male oscuro del giustizialismo, un morbo infettivo, contagiosissimo e tenace che da diciassette anni, dalla discesa in campo di Silvio Berlusconi a oggi, si è acutizzato sospetto dopo sospetto, accusa dopo accusa, processo dopo processo. Avvelenando non solo e non tanto la vita politica ma, cosa ben più grave e sciagurata per il Paese, quella sociale, culturale e di relazione. È anche per colpa di un cieco giustizialismo aprioristicamente antiberlusconiano – e fomentato, non bisogna dimenticarlo, da un altrettanto cieco garantismo berlusconiano frutto di una reazione uguale e contraria - che l’Italia è spaccata in due fazioni invece che suddivisa in partiti, e gli italiani identificabili in supporter invece che in elettori.

Stabilendo che devono essere i magistrati a valutare, caso per caso, se sussistano realmente motivi di legittimo impedimento per il capo del governo e per i ministri, e quindi di fatto parzialmente bocciandolo, la Consulta pur cercando salomonicamente una difficile mediazione, ha finito ancora una volta per dividere con un colpo di rasoio idee, ideologie, passioni, fedi. E mentre la destra, scossa, cerca di mantenere la calma, la sinistra, inebriata, esulta.
La folla che ieri pomeriggio si è radunata davanti al palazzo della Consulta, a Roma, per festeggiare la sentenza; i commenti euforici che hanno cominciato a rimbalzare da un sito all’altro della sinistra mediatica (il titolo, a caratteri conosciuti solo ai tipografi della Notte, che campeggiava sull’home page del Fatto quotidiano «Consulta, stop a legittimo impedimento. Berlusconi torna sotto processo», sembrava mancare solo di un «finalmente!»), e il popolo viola che inneggiava, non solo metaforicamente, in piazza, sono solo gli aspetti più folkloristici della furia giustizialista e giacobina in cui a volte sembra precipitare il Paese.

Dietro, e meglio, dentro tutto questo, c’è una forma mentis che attanaglia anche le menti migliori dell’opposizione e dell’area non berlusconiana, le quali – partecipando ai brindisi della sinistra più manettara per ogni sentenza contraria al Cavaliere – rafforzano il «legittimo sospetto» che da diciassette anni nutre una parte non minoritaria del Paese: e cioè che quella giudiziaria più che una strada maestra sia troppo stesso una scorciatoia per risolvere problemi non del diritto ma della politica.

Diciassette anni. Diciassette anni di insinuazioni, mezze verità, calunnie, accuse, denunce, campagne di stampa e di odio. Diciassette anni di ossessione giustizialista che ha infangato non solo il premier ma tutti gli italiani che di volta in volta hanno scelto di farsi rappresentare da Forza Italia o dal Popolo della libertà – secondo l’equazione: Berlusconi è il male assoluto, tutti quelli che lo votano sono ignoranti, mafiosi ed evasori – ma anche la parte rimanente del Paese che rispetto a Berlusconi cerca un’alternativa politica e non giudiziaria. Contribuendo non poco, così, a ingabbiare l’Italia nei suoi paradossi e nelle sue contraddizioni ben più di quanto fosse (e sia) necessario. Il giustizialismo non ha prodotto solo accuse, bava alla bocca, manette e champagne. Crescendo e irrobustendosi, ha dato vita a correnti culturali, movimenti di opinione e persino partiti. Finendo per avvitarsi su se stesso e perdendo di vista tutte le possibili diverse soluzioni per creare un Paese diverso. È la miopia di chi crede che abbattendo Silvio Berlusconi con una sentenza invece che con un voto popolare l’Italia tornerà immediatamente (come se da diciassette anni non lo sia affatto) libera, democratica, ugualitaria. E il furore che rende ciechi.

A proposito di diritto. Un magistrato famosissimo, in un’occasione pubblica altrettanto famosa, ha detto che «se la giustizia è un valore non si capisce in quale modo la sua ricerca possa diventare un disvalore. Ovviamente una giustizia perseguita con modi illegali o immorali non sarebbe più giustizia...». Ecco. L’idea, dopo gli ultimi diciassette anni, è che quando sul banco degli imputati c’è un cittadino che si chiama Silvio Berlusconi, a prescindere da contesto, accusa, difesa, carte e testimoni, la legittima sete di giustizia tenda a diventare un’ubriacatura, e l’ansia di riparare un torto un processo inquisitoriale. A pagarne le spese, in questo caso, non è solo l’imputato. Ma l’intera cittadinanza.

Gli uomini che amministrano la giustizia, dal 1994 a ieri sera, hanno pronunciato centinaia, anzi migliaia di articoli. Di fronte ai quali, però, fa fede forse il più importante della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, contro l’uso strumentale o sproporzionato del potere giudiziario. Quello che recita: «Ogni individuo ha diritto, in posizione di piena uguaglianza, ad una equa e pubblica udienza davanti ad un tribunale indipendente e imparziale, al fine della determinazione dei suoi diritti e dei suoi doveri, nonché della fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta». A molta gente che non mastica diritto, al netto di sofismi e grovigli, sembra che gli aggettivi «equa» riferita ad udienza e «indipendente e imparziale» riferita a tribunale, siano sempre di più – in ogni «caso» politico dell’ultimo ventennio – più una speranza che una certezza.

L’impressione che abbiamo provato ieri sera.

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