SINISTRA SPIAZZATA

«Berlusconi arma la piazza», proclamava il manifesto di ieri, dando allo stesso tempo la notizia della bella manifestazione di piazza del Popolo - organizzata dalla sinistra - che si terrà a Roma sabato prossimo. Lo stesso strabismo è apparso sull’Unità, su Liberazione e sul Fatto quotidiano

«Berlusconi arma la piazza», proclamava il manifesto di ieri, dando allo stesso tempo la notizia della bella manifestazione di piazza del Popolo - organizzata dalla sinistra - che si terrà a Roma sabato prossimo. Lo stesso strabismo è apparso sull’Unità, su Liberazione e sul Fatto quotidiano: dove, in ben due titoli, Berlusconi «minaccia» e «invoca» la piazza. Insomma, le manifestazioni piazzaiole della sinistra sono sacrosante e benigne quanto quelle della destra odorano di zolfo, violenza e «golpe» (ancora il manifesto).
Si potrebbe pensare che così è la politica, per cui l’avversario è sempre cattivo. Ma non mi sembra che dietro simili dichiarazioni ci sia un pensiero politico, tanto sono ingenue e spontanee, nella loro contraddittorietà. C’è piuttosto qualcosa di antropologico, un mutamento della visione del mondo che viene da lontano, dalla storia.
Quella degli italiani si è svolta nelle piazze. Sin dal medioevo sono state il luogo di incontro e di scontro, di scambio e di rito civile e religioso. Le cattedrali sorgevano nella piazza centrale delle città, e nello stesso luogo il potere laico dei comuni volle innalzare la propria torre. In un’altra piazza, quella del mercato, si svolgeva la vita economica e commerciale e in piazza si è formato il carattere italiano, così aperto al prossimo e così pronto a gabbarlo. In piazza si svolsero episodi esaltanti del Risorgimento, i primi scioperi operai, le manifestazioni interventiste e anti-interventiste della Prima guerra mondiale, gli scontri fra socialisti e fascisti.
Insomma, la piazza era il luogo di tutti, soprattutto di ogni fazione o idea politica. Poi venne il fascismo, che per oltre vent’anni monopolizzò le piazze di tutta Italia con folle più o meno oceaniche. Quelle folle osannanti il duce erano l’incubo degli antifascisti: perché si sapeva - si percepiva - che erano manifestazioni di esaltazione sincera, anche se a lungo lo si è negato.
Per questo motivo la sinistra si è voluta riappropriare di un luogo che, ben più che fisico, era ormai simbolico: e per questo il rito finale della sconfitta del fascismo si svolse in una piazza, chiamata Piazzale Loreto. I luoghi hanno un fortissimo valore di simbolo. Basti pensare a quanto accadde nel 1960, quando il Movimento Sociale Italiano decise di organizzare un congresso a Genova, città «rossa» e medaglia d’oro della Resistenza. La scelta sembrò un tale, calcolato, oltraggio da far scendere la sinistra in piazza fino a far cadere il governo Tambroni.
Da allora, e sempre di più, la piazza è diventata il luogo tipico della sinistra, a volte con tono minaccioso, più spesso con l’apparenza di una festa. Bandiere, colori, slogan, allegrie, leader sorridenti, cantanti autopubblicizzanti, studenti festanti: e, con un tocco di kitsch familiare, bambini, tanti bambini, quasi a dimostrare la totalità della volontà popolare. (Ma c’è da credere più a una carenza di baby sitter).
Così, ogni volta che la destra ha provato a fare la stessa cosa, il fatto è stato vissuto peggio di un’invasione di campo. Una violazione di domicilio, un esproprio padronale, un attacco alla democrazia: sinceramente, istintivamente, antropologicamente, come hanno fatto ieri manifesto, Liberazione, Fatto ecc.
Basti pensare allo sgomento che provocò, il 18 ottobre 1980, la «Marcia dei Quarantamila» a Torino: impiegati e quadri della Fiat che protestavano - in strada, in piazza - contro il picchettaggio operaio che da trentacinque giorni impediva loro di andare a lavoro. Fu a partire da quell’episodio storico che i sindacati cominciarono a perdere progressivamente potere nel Paese e fra i loro stessi iscritti.

Fu sempre da quell’episodio che la sinistra ha voluto riassicurarsi il monopolio della piazza, demonizzando chiunque attentasse a una proprietà che si voleva esclusiva. Ma che ovviamente non può esserlo.
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