Sarebbe la croce e la delizia di Margaret Mead, la più famosa di tutte le antropologhe. Una signora che ha passato la vita a dire che per capire noi stessi bisogna guardare gli altri, e viceversa. In ogni caso è un giochino che una qualche riflessione ci costringe a farla, sintonizzandoci sul buon senso, frequenza mentale poco globale e poco politicamente corretta.
Stiamo parlando dell’effetto che fa guardare il nuovo docu-reality in onda su Nat geo adventure (oggi e tutti i mercoledì alle 21, canale 410 della piattaforma Sky) e intitolato Due Masai in città. Il funzionamento della mini-serie è semplice e segue le orme di quello che ormai è diventato un classico, Selvaggio a chi? (storia di indigeni prelevati dalle isole Vanuatu e spediti nel mondo «civilizzato»): Lemarti, un guerriero Samburu, e Boniface, un guerriero Masai, sono amici d’infanzia e, normalmente, fanno da guida nella savana ai turisti che vanno in Kenya. Ma ora vengono portati in giro per gli Usa a esplorare la cultura occidentale. Così lo spettatore scopre che effetto fa la nostra modernità vista con i loro occhi. Occhi di ragazzoni abituati a girare con la lancia, rispettare gli anziani del villaggio, costruire case con lo sterco di mucca, avere almeno due mogli, farsi una dozzina di chilometri a piedi ogni volta che bisogna mangiare e non bere alcol sino ai trent’anni (neanche dopo, senza il permesso di un anziano). Non, per intenderci, che Lemarti e Boniface girino con una sveglia al collo, il mondo globale li ha già toccati da un pezzo: hanno entrambi il cellulare - Boniface si arrampica sull’albero più alto vicino alla sua manyatta per trovare campo ogni volta che deve chiamare Lemarti - e vanno in motocicletta, anche se usano come casco per il passeggero un guscio di tartaruga pieno di stracci. Però, lettore di Mp3 a parte, hanno conservato una visione della vita molto «masai» (voi avete mai fatto campeggio dando di zagaglia a un coccodrillo o bevuto sangue di vacca?). Ecco che allora quando vengono catapultati a New York (la puntata di stasera), l’impatto è notevole. Tanto per dire, il freezer è la loro passione: «Tutta questa roba da mangiare senza doverla andare a cercare...». L’hot dog è il loro cruccio: «Ma davvero questa è carne? Ma di cosa? Ma tu la mangi... Certo che qui mangiate tutti un sacco, ma non sapete cosa mangiate...». Per il resto, abituati a valutare la ricchezza in mucche, calcolare quante mucche vale New York proprio li sballina. Non certo quanto li sballina un bancomat usato dal loro amico René: «Ma questi soldi di chi sono? Li stai rubando... Sono tuoi e li tieni in quella macchina? Finirà che la rompono e te li rubano... Nel nostro paese bisogna vendere qualcosa per far soldi: il nostro bancomat è una capra... I soldi non escono dai muri». E se l’idea li avvince (dollari facili), quando si accorgono che Central park è pieno di senza tetto, prima insegnano a uno di loro come si fa ad accendere un fuoco usando solo rametti di legno e sterco di cavallo (meglio quello di elefante ma anche nella Grande Mela a volte tocca accontentarsi), poi corrono a dare una mano alla mensa dei poveri costringendo gli altri volontari a cantare canti africani. E sarebbe una melassa un po’ sdolcinata, non fosse che nel farlo non sembrano sentirsi buoni: semplicemente in una tribù, grande o piccola che sia, si fa così e basta. Non c’è neanche da mettersi a discutere, è fuori di cotenna chi una mano non la dà. Si dispiacerà invece il radical chic che adora il mito del buon selvaggio quando si accorgerà che a Boniface, intenzionatissimo a trovarsi una seconda moglie americana (che si faccia una bella capanna di fango accanto alla prima), «dell’interiorità della donna» non può fregargliene di meno. Anche capire perché una debba trovare poco interessante caricarsi venti litri d’acqua sulla testa per riportarla al villaggio gli riesce difficile. Però non se ne cruccia, prende atto che il suo appuntamento è finito male e punto. Quando poi si tratterà di andare in Texas da quei cattivi mandriani bushisti lì si che i due ragazzi si troveranno bene anche perché le cose si misurano in mucche come a casa loro e Lemarti sul toro meccanico è un vero fico... Magari qualcuno se la prenderà anche per quel razzista di vecchio Masai che Obama, in foto, non lo trova affatto abbronzato: «Mezzo keniota? Ma questo è un bianco...». Insomma per essere televisione, dove tutto è quasi sempre troppo finto o troppo vero, l’impressione è di trovarsi di fronte a una versione tv di quel racconto di Wells, Nel Paese dei ciechi, che è la miglior silloge dell’incontro tra civiltà. Che non sarà uno scontro ma comporta comunque una bella zuccata.
E non è detto che certi malditesta facciano male (né a noi né ai Masai).Ps: ovviamente i Masai un po’ recitano (e da guerrieri se la tirano) ma chi non recita davanti allo straniero? Se poi è uno straniero pieno di telecamere e col frigo pieno...
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