Chi non sa ridere non è davvero libero

Il caso CaselliLombardini fu emblematico: un magistrato che querela un vignettista è già, di per sé, la caricatura perfetta della giustizia italiana

Chi non sa ridere non è davvero libero
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Gentile Direttore, oggi ascoltiamo un coro unanime di voci che celebrano Forattini, ma pare che nessuno ricordi la vicenda forse più significativa della sua vita professionale, che riveste un importante significato politico e culturale. Nel 1998 venne denunciato dal giudice Caselli per la vignetta che si riferiva al suicidio del giudice Lombardini, accusato da Caselli di complicità con gli autori di un rapimento. La vignetta evocava allusivamente

una responsabilità di Caselli nel suicidio di Lombardini. I colleghi di Caselli confermarono la condanna a Forattini in tutti e tre i gradi di giudizio. L'episodio si presta a fare qualche riflessione su quale sia la concezione della libertà di espressione diffusa nella magistratura italiana e sulla solidarietà corporativo-feudale, di matrice culturale-antropologica, che forse si potrebbe intravedere nel comportamento dei giudici. Significativa fu anche la vignetta su

Maometto, per la quale rischiò la vita. Sgradite, ma non altrettanto pericolose furono le vignette sul Vaticano. L'ironia e l'autoironia sono un indicatore del grado di evoluzione di una civiltà. Forattini ci ha aiutato a capirlo.

Gabriele Ciampi

Caro Gabriele,

ti ringrazio per la tua lettera, che restituisce dignità e memoria a un uomo come Giorgio Forattini, uno dei pochi capaci di prendere il potere per il verso giusto: quello del ridicolo. Nel Paese del conformismo e delle vesti stracciate, lui ha osato disegnare ciò che molti non hanno mai avuto il coraggio di dire. E per questo, come tu ricordi, fu processato, condannato, e persino minacciato di morte. Oggi tutti lo celebrano, ma pochi rammentano quante volte lo hanno messo alla gogna, nel nome di una libertà che valeva soltanto finché non toccava gli intoccabili.

Il caso CaselliLombardini fu emblematico: un magistrato che querela un vignettista è già, di per sé, la caricatura perfetta della giustizia italiana. Forattini aveva osato usare la matita per fare ciò che il giornalismo dovrebbe fare ogni giorno: domandare, insinuare, stimolare il dubbio. Ma nel nostro Paese si può processare un politico, un sacerdote, perfino

un imprenditore, ma non si può mettere in discussione un giudice. E questo la dice lunga sulla solidarietà di casta che tu citi con finezza accademica ma che io definirei, più brutalmente, feudalesimo togato.

Tocchi un punto decisivo: l'ironia.

In effetti, il grado di civiltà di una società si misura dalla capacità di ridere di sé stessa. La satira, nata nell'antica Roma (non in Grecia, come spesso si crede), fu proprio questo: uno strumento per prendere in giro il potere, non per distruggerlo, ma per tenerlo desto. Giovenale e Orazio usavano il riso come arma critica, e la loro lezione è ancora attuale: dove si smette di ridere, comincia la paura.

Oggi, invece, il politicamente corretto ha ucciso la satira. La comicità è sotto processo, l'ironia è sospetta, e la risata è diventata un reato morale. Viviamo in un'epoca dove si può bestemmiare Dio, ma non si può ironizzare su un'ideologia.

La differenza tra una civiltà libera e una oppressa sta tutta lì: nel diritto di ridere di chi comanda.

Non è un caso che nelle società islamiche più rigide, quelle dove la religione e la politica coincidono, l'ironia sia vietata per legge, e chi ha l'ardire di disegnare un profeta venga assassinato, come accadde ai redattori di Charlie Hebdo.

Per certe culture, ridere è blasfemia. Qui, ridere sta diventando scorretto. Il passo che separa la censura morale da quella religiosa è più corto di quanto si pensi.

Forattini, con una vignetta, valeva più di cento editoriali. Perché sapeva che una risata sincera pesa più di mille indignazioni fasulle.

In fondo, l'Italia dovrebbe ringraziarlo: ha insegnato che chi non sa ridere non è libero.

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