
Quando un uomo pronuncia parole che inneggiano alla violenza e difende apertamente chi la pratica, la società civile deve reagire. Non è una questione ideologica: è una questione di sicurezza nazionale.
Mohammad Hannoun, al centro di un caso che ha scosso l’opinione pubblica, è divenuto simbolo di un problema che riguarda la tenuta stessa del nostro Stato democratico. Dalle inchieste giornalistiche emergono frequentazioni, dichiarazioni e posizioni che secondo le cronache hanno evidenziato una presunta vicinanza a Hamas, organizzazione indicata dagli Stati Uniti e da gran parte della comunità internazionale come terroristica.
Gli Stati Uniti hanno designato Hamas come Foreign Terrorist Organization (FTO) già dagli anni Novanta. Ciò significa che chi ne sostiene l’azione o ne condivide le finalità viene collocato, dalle autorità americane, nel perimetro di un movimento ritenuto parte integrante di un fenomeno terroristico globale.
Non si tratta di opinioni, ma di atti ufficiali: il Dipartimento di Stato e il Dipartimento del Tesoro hanno più volte sanzionato i canali di finanziamento riconducibili a Hamas e ai suoi sostenitori.
Secondo numerose inchieste giornalistiche italiane, Hannoun sarebbe coinvolto in attività e iniziative che a giudicare dalle informazioni riportate da fonti statunitensi potrebbero essere considerate di contiguità con ambienti vicini a Hamas. Hannoun ha sempre negato ogni coinvolgimento diretto e respinto ogni accusa, pur dichiarando pubblicamente la propria “simpatia per Hamas”: un’affermazione significativa, considerato che si tratta di un gruppo definito terroristico da leggi internazionali.
Ancora più allarmanti sono le parole pronunciate pubblicamente, riportate da diverse testate italiane: «Chi uccide va ucciso. I collaborazionisti vanno uccisi». Non è linguaggio politico. È linguaggio di guerra. E in un Paese democratico questo tipo di messaggio non può essere tollerato.
Secondo quanto documentato da più redazioni, Hannoun avrebbe attaccato verbalmente e rivolto espressioni offensive nei confronti dell’editore e dei giornalisti del quotidiano “Il Tempo”, che ha condotto l’inchiesta sul suo conto. Un fatto giudicato grave da numerosi osservatori del settore dell’informazione.
Le parole di Hannoun sono state riportate fedelmente dalle cronache e che, per tono e contenuto, sono state percepite come un tentativo di intimidire la stampa. Colpire i giornalisti accusarli, insultarli o screditarli e questo è il primo passo di chi rifiuta la democrazia. In un sistema libero, la stampa è lo scudo della verità. Ogni minaccia, anche verbale, rivolta a chi informa i cittadini è un colpo diretto al cuore della libertà.
Le dichiarazioni attribuite a Hannoun non sono soltanto un’offesa: sono un campanello d’allarme per la sicurezza nazionale. Una società che resta in silenzio davanti a simili episodi smette di essere libera.
L’Italia ha il diritto e il dovere di difendere se stessa. La legge prevede l’espulsione di cittadini stranieri per motivi di ordine pubblico o di sicurezza dello Stato. Non è un atto politico, ma una misura di tutela collettiva.
Un individuo che secondo le autorità o le cronache incita alla violenza, offende pubblicamente la stampa o manifesta vicinanza ad ambienti estremisti rappresenta un rischio per la convivenza civile e per i valori costituzionali. Lasciarlo libero di agire significherebbe legittimare la propaganda dell’odio e offrire terreno fertile a chi sogna di demolire le fondamenta democratiche del Paese.
Difendere la democrazia non significa accettare tutto. Significa sapere dove finisce la libertà di parola e dove comincia l’istigazione alla violenza.
Chi giustifica o glorifica chi usa il terrore come strumento politico non può nascondersi dietro la libertà di espressione. L’Italia deve agire con fermezza e trasparenza, ma senza esitazioni.
Ogni giorno di silenzio è un giorno regalato all’estremismo. Ogni minaccia non punita è un colpo inferto al cuore dello Stato di diritto. E c’è un grave problema di sicurezza riguardo anche al fenomeno emulativo che, con questa propaganda d’odio, si può generare nel Paese un rischio forse ancora più pericoloso.
L’eventuale espulsione di Mohammad Hannoun non sarebbe una vendetta politica: sarebbe un atto di autodifesa democratica, da valutare nel pieno rispetto delle leggi e delle garanzie costituzionali. Un Paese libero non può permettere che chi incita alla violenza o minaccia la stampa continui a operare indisturbato sul suo territorio.
Difendere la libertà non significa
restare neutrali di fronte all’odio: significa scegliere da che parte stare. E l’Italia, se vuole restare una democrazia viva e sicura, deve stare senza ambiguità dalla parte della legge, della verità e del coraggio civile.