Una giovane trentenne entra nel mio confessionale. Si intuisce che le è venuto di istinto in un momento di ricerca interiore, ma credo si sia subito pentita appena seduta. «Non so perché sono qui - mi confida -. Mi capita a volte di venire in chiesa da sola a pensare. Non vengo mai a Messa però. Ho visto la luce accesa nella penombra e mi sono avvicinata. Però le dico subito che io credo in Dio, ma non credo nella Chiesa». La guardo negli occhi, le sorrido e rispondo: «Non si preoccupi, neanche io credo nella Chiesa». «Ma come?», ribatte stranita. Ho condiviso allora con lei questa riflessione. Ogni domenica nella Messa si recita il credo. Si dice: credo «in» un solo Dio, Padre Onnipotente, creatore del cielo e della terra e «in» Gesù Cristo suo figlio. Credo “nello” Spirito Santo, ma poi si dice: credo «la» Chiesa. Non si crede «nella» Chiesa, ma si crede «la» chiesa. Il Cardinale Ercole Consalvi, Segretario di Stato di Pio VII, fu un abile diplomatico nel trattare con Napoleone. Al suo sbottare: «Distruggerò la vostra Chiesa», il Porporato rispose: «Maestà, sono venti secoli che noi stessi proviamo a farlo, in diverso modo, ma non ci siamo mai riusciti».
Oggi, 9 novembre, si ricorda la Dedicazione (cioè la consacrazione) della Basilica di San Giovanni in Laterano a Roma. È la Cattedrale di Roma, è la madre di tutte le Chiese del mondo, è la sede del Vescovo di Roma e il Papa proprio per questo suo titolo presiede tutte le comunità del mondo. San Pietro in Vaticano è la più famosa, la più televisiva, perché ci abita il Santo Padre, ma la più importante è il Laterano perché è il segno dell’unità. Sembra strano fare festa a un edificio invece che a una persona o al ricordo di un evento. Significa considerare questo spazio «dedicato» all’infinito come scuola e palestra di vita. Curioso il termine che gli antichi scelsero: non quello di consacrazione ma di dedicazione, per significare che quei muri sono dedicati a Dio ma anche a ciascuno, perché hanno qualcosa da dire sia a chi crede sia a chi da laico vi trova un laboratorio di ricerca di senso, un angolo di pace interiore o anche solo uno spazio artistico che interpella con il linguaggio del bello. Mi spiego con un esempio. Protagoniste delle chiese sono le colonne. Proviamo a guardarle. Se ne stanno ai margini. Il loro modo di ragionare è: «Non ci sono solo io, ma ci sono anche io». Ricordano che ognuno è unico e prezioso a modo suo. Non c’è equilibrio sia se qualcuno manca, sia se ciascuno non sta al suo posto con giusta vicinanza e corretta distanza.
Le colonne poi non attirano attenzione, a differenza di chi strombetta come l’organo o si gongola per apparire come i pizzi o fa fumo come il turibolo o luccica come le candele.
Nella loro semplicità, in silenzio, portano i pesi del soffitto, tengono insieme i muri, proteggono chi è loro accanto. Portano così a farci rendere conto di quante persone sono “pilastri” per noi come struttura portante o supporto o collante o rinforzo, ma anche di quanto noi lo siamo per altri. C’è un altro aspetto: le colonne tendono verso l’alto e insieme vanno in profondità, facendo riflettere sull’essenzialità dell’interiorità.
Sono solo i fondamenti solidi che fanno restare saldi, con la schiena dritta e la testa alta. Lo stile contrario della colonna è quello di chi è un cubo di cemento tozzo, pesante, tronfio, ingombrante, superficiale, bloccante, opprimente. È un rischio facile anche per noi. Chiediamoci: quanto, quando, come io sono colonna o cubo? Quali scelte e relazioni sono la mia colonna sonora? Quali priorità sono colonna vertebrale del mio impegno? Infine le colonne sostengono gli archi che fanno alzare lo sguardo e scoprire l’incanto della volta che è ideata come squarcio sul cielo e incontro col divino. È spesso lo spazio più affascinante, ma il meno considerato, esattamente come la parte bella della nostra vita.
Siamo troppo ripiegati su noi stessi, accartocciati sul negativo, tanto che se alziamo gli occhi vediamo solo le ragnatele o rimaniamo tappati dal soffitto sopra il letto dove in agguato ci sono i troppi «te-l’avevo-detto» che tengono svegli. Un arco, proprio mentre si slancia verso l’alto, sa essere anche legame con ciò che sta accanto e in basso. Mentre alza le sue mani verso il cielo, le allunga agli altri.