Il sogno e la realtà da Mattia Preti a Evola

A Sutri antichi e moderni dialogano a distanza Il tema? La nostra vita sospesa tra luci e ombre

Il sogno e la realtà da Mattia Preti a Evola

Si guardano, nelle quiete stanze di Palazzo Doebbing a Sutri, le luminose invenzioni di artisti antichi e moderni secondo una formula collaudata nelle precedenti occasioni di «dialoghi» e «incontri». Luci e ombre a Sutri. Da Mattia Preti a Depero inaugura oggi al Museo di Palazzo Doebbing, a Sutri, e prosegue fino al 22 gennaio 2022. Che si tratti di luci e ombre lo fa intendere la scelta del primo artista: Mattia Preti, con opere di facile reperimento, gli Apostoli conservati nella cattedrale di Sutri e nella Chiesa di Santa Maria Assunta di Nepi.

Fortemente caravaggesche e riberesche, le mezze figure, dalle teste potentemente espressive, sono indivisa testimonianza della stretta collaborazione di Gregorio e Mattia Preti. Alcune più intense e drammatiche, altre più morbide, ma tutte radicali nella semplificazione che non le può rendere troppo mature anche per la necessità di ancorarne la committenza al vescovo calabrese Marcello Anania che, più vecchio di Mattia (era nato nel 1609), arrivò a Roma (da Taverna, patria comune) probabilmente ancora negli anni Trenta, per diventare poi vescovo di Nepi e Sutri nel 1654. La lezione di Caravaggio in queste opere è ancora molto viva. L'intendimento di Mattia Preti è evidente: mettere in scena Caravaggio, renderlo teatrale, in una premonizione del melodramma. All'altro capo del percorso troviamo Fortunato Depero, pittore futurista che più di tutti orientò le sue invenzioni nella direzione della promozione pubblicitaria.

Depero si forma nell'esaltazione futurista del primo manifesto, allievo di Giacomo Balla, con in quale scrive un successivo manifesto: Ricostruzione futurista dell'universo.

Convenzionalmente si tende a definire Depero «pittore del secondo Futurismo»: benché il primo Futurismo si proponesse di «portare l'Arte nella vita», di fatto rimase chiuso dentro gallerie e musei (fatta eccezione per le «Serate futuriste») e si limitò ad esprimersi tramite le arti maggiori della pittura e della scultura. Il secondo Futurismo, invece, entrò veramente nella vita quotidiana, grazie alla pubblicità, all'arredamento, agli allestimenti teatrali, alla moda, all'architettura, all'arte postale.

Certamente utile è, in questa occasione, confrontare la concentrazione espressiva di Depero con alcuni incunaboli delle avanguardie quali sono le opere preziose di un altro allievo di Giacomo Balla: Julius Evola, la cui limitata produzione è stata raramente esposta. D'altra parte la stessa riscoperta di Evola è stata tardiva e contrastata, nonostante il fondamentale contributo di Enrico Crispolti. Oggi appare incontestabile la forza creativa e originale di Evola, nel tempo limitatissimo della sua produzione pittorica, tra 1913 e 1921, quando «andò oltre», per dedicarsi ad altri settori della cultura come l'esoterismo, le tradizioni, le analisi dei simboli, la storia delle religioni. In rapporto con Tristan Tzara, fu il più importante esponente italiano del dadaismo. Nel carteggio con Tzara si apprezza anche la dimensione internazionale della ricerca di Evola, che ha rapporti diretti con Christian Schad, con Blaise Cendrars, con Jean Arp. Nella mostra di Sutri si conferma la grande tensione interiore di Evola che prende le distanze dal movimento futurista perché rappresenta «una sorta di slancio vitale del tutto sprovvisto di una dimensione interiore». La sua ricerca può essere intesa come «astrattismo mistico», concetto pertinente con l'opera. Certamente Evola è uno dei più notevoli esponenti dell'arte astratta. E non poteva che interpretarla come una esperienza mistica e iniziatica. Con Evola finisce una concezione filosofica e spirituale dell'arte. In lui è possibile avvertire, nel breve tempo della sua produzione esplicita, una veritiera affinità con Kandinsky.

Usciti da questa dimensione sperimentale, si passa alla visione descrittiva, oltre le avanguardie, di un artista come Alberto Magri con un ritorno alla tradizione, ai pittori primitivi, a Giotto e a Sassetta, attraverso sintesi formali, abbreviazioni, di originale verginità, per elaborare un linguaggio in codice oltre il rischio dell'illustrazione. Parallelamente a Magri procede, con un più profondo umanesimo, anche nel ricercato linguaggio primitivo, a suo modo neogiottesco, Tullio Garbari, la cui autenticità è disarmante, nobile, solitaria. In Garbari l'immagine contadina è spontanea, mai caricaturale o di genere, ed è sostenuta da un'intensa religiosità.

Superata questa esperienza della prima metà del secolo, il dialogo continua con Ottavio Mazzonis. Nato nel 1921, approda allo studio di Nicola Arduino (allievo di Giacomo Grosso): da lui apprende la tecnica della pittura a fresco, e, come lui ,dipinge pale d'Altare per numerose chiese. Avendo ammirato la Gloria di San Corrado di Arduino nella volta della Cattedrale di Noto (1952),in stile neotiepolesco, Mazzonis condivide fino in fondo la nobilissima scelta retrò del maestro. L'impegno dovette esser così appassionante e coinvolgente da condizionare la sua ispirazione e condurlo in una dimensione senza tempo, di assoluto idealismo, e in radicale contrapposizione con tutte le ricerche estetiche del suo tempo. Ne escono immagini rarefatte, impalpabili, di pura, edonistica felicità come nella grande pittura settecentesca italiana e francese.

Di segno opposto è l'esperienza esoterica di Casimiro Piccolo che riabilita il mondo delle favole, trasformandole in metafore delle sue ossessioni. Ciò che appare nel tempo sospeso della infanzia è una fuga dalla realtà nell'hortus conclusus di una casa della memoria. Fotografie e acquerelli immortalano spiriti, apparizioni, fantasmi di cui doveva essere popolata la Villa dei Piccolo, con il fratello Lucio, poeta, a Capo d'Orlando.

Ancora di altro spirito è il simbolismo di Jean Pierre Velly, tra i pittori e incisori più radicali dell'intero Novecento. In Velly rivive lo spirito dei pittori romantici tedeschi, alla Friedrich. La natura parla, ammonisce, spaventa; la sua realtà si fa subito, anche nel minuzioso realismo, allucinazione. È pungente, fredda. Velly vive (e soffre) di turbamenti, in una particolare sehnsucht: ciò che vede si trasfigura, e non è davanti a lui ma dentro di lui. Tenta di riportarlo fuori dalla disperazione, pur seguendone gli insegnamenti, Rosa Maria Estadella che disegna e incide con paziente rimeditazione dell'opera di Velly. Davanti a lei ci sono i «fiori stanchi» che si trasformano in sogni, ricordi, memoria.

A rinnovare con vigore l'esperienza bruscamente interrotta di Velly si candida, senza esitazioni, Agostino Arrivabene, visionario fuori del tempo, prodigiosamente indifferente a ogni stimolo del reale, perlustratore di sogni con compiacimento. La sua pittura è sensuale e soddisfatta, i suoi incubi iperboli di una immaginazione sconfinata. Se nella vita c'è il dolore, nell'opera c'è la felicità. In un sogno di perfezione, di anime purificate, di essenze sublimi.

La realtà è l'ombra, il sogno la luce. La malinconia di Velly è ribaltata in euforia di notti mistiche.

Uscendo dalla loro casa abituale, nelle catacombe dei Cappuccini a Palermo, le mummie di Cesare Inzerillo si trasferiscono negli ambulatori igienicamente perfetti dove sua moglie, Marilena Manzella, sottopone a indagini diagnostiche, con elettrici effetti speciali, dipinti antichi di Mantegna, di Alvise Vivarini, di El Greco. Ne escono immagini sconvolgenti, imprevedibili automi, che nascondono corpo (e anima) sotto le vesti di immutabili dipinti. Il percorso continua con un giovanissimo artista rumeno, Christian Avram, che si misura, senza cercare strade impervie, con la realtà delle sue giornate. È un artista disarmato e disarmante. I riferimenti più semplici sono Antonio Lopez Garcia e Gianfranco Ferroni, ma senza nessuna intenzione di celebrare la sacralità del quotidiano nella sua scabra essenza. Avram sta un po' più giù, non c'è nessun mistero, nessun segreto da rivelare, nulla di più di quello che si vede; e che non è la solitudine delle cose ma la solitudine e l'abitudine dell'uomo «nelle» cose: un lampadario sulla testa, una porta chiusa, una finestra davanti alla città, una poltrona coperta, una cucina con il televisore acceso. Un quotidiano non metafisico, un quotidiano e basta. Niente di più. Avram non fa parlare gli oggetti. Li fa tacere.

A Sutri infine lavorano due artiste solitarie e appartate.

Nora Kersh, che tenta di far tornare alla natura l'astrazione, con una sintesi formale perfetta che rimanda alla ricerca delle montagne incantate di Michelangelo Antonioni. Chiude, con la forza e la semplicità di tornare all'uomo senza turbamenti e reticenze, Tiziana Rivoni.

Dignità, regalità, potenza ci trasmettono le sue teste di mori liberati da ogni pregiudizio. La Rivoni li fa sentire, con estrema semplicità, fratelli. Nostri dissimili simili. In quella umanità di soli neri ci siamo anche noi. Bianchi e neri, luci e ombre a Sutri.

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