Il sogno inconfessabile della Bindi: Palazzo Chigi

Dalla maglietta anti Cav al compleanno con Prodi: Rosy cerca consensi fuori e dentro al Pd. Gli ex Ds la boicottano. Con D'Alema lite sull'Aventino. Veltroni: "Quella cerca solo visibilità"

Il sogno inconfessabile della Bindi: Palazzo Chigi

Roma L’operazione «Bindi for president» viene da lontano, e ha un (involontario) sponsor d’eccezione: Silvio Berlusconi.
È stata quella battutaccia in diretta tv del premier («Più bella che intelligente») e la pronta risposta della Bindi («Non sono a sua disposizione») a far fare, nell’autunno del 2009, un salto di qualità alla popolarità di Rosy. La quale da allora, entusiasmata dagli applausi che raccoglie ogni volta che fa capolino su una piazza anti-Cav (e la presidente del Pd è una vera stakanovista della piazza), ha iniziato a pensare in grande. E a lavorare sottotraccia per concorrere alla futura gara per la premiership. Non a caso è stata subito messa nel mirino da altri due aspiranti: Matteo Renzi, che la ha bollata come «vecchia» ricordando che sta in Parlamento dai tempi di Andreotti e Forlani; e Nichi Vendola, che la ha candidata pubblicamente (bruciandola).

L’ascesa della Bindi ha subìto una pesante frenata la settimana scorsa, quando la presidente del Pd si è trovata a perorare la causa dell’«Aventino» («Partecipare alle sedute è inutile») proprio mentre la squadra di opposizione infilava una serie imprevista di brillanti vittorie parlamentari, mettendo all’angolo il centrodestra. I suoi compagni di partito, che non la amano (e le contestano il «doppio incarico» di presidente Pd e di vicepresidente della Camera) gliene hanno dette di tutti i colori: «Quella cerca sempre e solo visibilità», è sbottato Veltroni. Rosy aveva appena cercato davanti alle telecamere la lite con D’Alema, in aula: con l’idea che in serata la scenetta sarebbe passata su tutti i tg e che i telespettatori antiberlusconiani si sarebbero entusiasmati per lei, eroina dell’opposizione dura e intransigente, costretta a combattere con l’accidia dei suoi fiacchi compagni «inciucisti».

Invece quella sera a rubarle la scena ci ha pensato un ministro La Russa più su di giri di lei, e il giorno dopo il Pd anti-Aventino ha messo a tappeto gli amici del Cavaliere. A Rosy non è rimasto che fare retromarcia.
Un incidente antipatico, che fa dire ad un suo amico ex Ppi che «in questi giorni Rosy è stata piallata: gli ex Ds le hanno fatto capire che chi non viene dal loro partito non deve azzardarsi a mirare troppo in alto. Figuriamoci a fare il candidato premier». E dire che era appena uscita l’intervista a Vanity Fair in cui la Bindi iniziava a costruire il suo profilo extra-politico da candidata, con tanto di confessione sui suoi «tre fidanzati». Una nuova tappa di quel lancio della candidatura che avrebbe dovuto decollare il 12 febbraio scorso. Quel giorno Rosy ha festeggiato il suo sessantesimo compleanno, e per l’occasione ha organizzato una festa nella sua Sinalunga, invitando tutto il Gotha Pd. A cominciare dal padre della patria ulivista, Romano Prodi. E, com’è come non è, da quel party («Uno dei più tristi della storia, ti dico solo che è cominciato con una messa in suffragio di Bachelet ed è finito con la Bindi e Bersani che cantavano “Siamo la coppia più bella del mondo”», confida un dirigente di primo piano costretto a partecipare per ragioni diplomatiche) trapelò la Grande Investitura.

O almeno quella che così venne raccontata. Al momento dei brindisi, tra un bicchiere e l’altro di rosso di Montalcino, Prodi buttò lì la battuta: «Tutto il potere a Rosy, perché non fai tu il premier?».
Una classica indiscrezione pilotata, spiegano nel Pd gli anti-Bindi, che serviva a dimostrare che un’eventuale candidatura avrebbe avuto nientemeno che l’imprimatur di Prodi. Il quale, raccontano, in verità non nutre particolari simpatie per la sua ex ministra, che conosce dai tempi in cui navigavano entrambi le opache acque del vecchio potere Dc; e che oltretutto nel 2007 gli si candidò contro alle primarie. La sua dunque era una battuta, e quando la cosa finì sui giornali lui si tirò indietro freddamente, seccato: «Non partecipo al totopotere».
E forse la perfida parolina («potere») non la ha detta a caso il Professore, che della materia si intende.

Come Rosy, politica navigata e spesso meno moralista di quel che appare: come quando, in quelle famose primarie, ottenne un boom di preferenze in Calabria, battendo pure Prodi, grazie ad una spregiudicata alleanza con il chiacchieratissimo governatore, l’ex Dc Agazio Lojero.

O come quando in Campania strinse un patto congressuale di ferro con Angelo Montemarano, potente assessore alla Sanità e anello di congiunzione tra il potere di De Mita e quello di Bassolino, e ne sponsorizzò la candidatura alle Europee. Pecunia non olet, diceva Vespasiano: i voti neppure.

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