Controcultura

Il sogno di rifondare la nostra civiltà

Venner non aveva niente da spartire con l'Ue dei trattati e dei mercati

Stenio Solinas

L' ultimo libro che Dominique Venner scrisse prima di uccidersi, ha un'incisione di Dürer in copertina. È Il cavaliere, la Morte e il Diavolo e il suo perché è subito detto: «Solitario, al passo fermo del suo destino, la spada al fianco, il più celebre ribelle dell'arte occidentale cavalca verso il suo destino tra le foreste e i nostri pensieri, senza paura né preghiere. Incarnazione di una figura eterna in questa Parte del mondo chiamata Europa». Titolo e sottotitolo rafforzano ancora di più quella scelta (Un Samurai d'Occidente. Il breviario dei ribelli, Edizioni Settimo Sigillo, a cura di Andrea Lombardi, prefazione di Adriano Scianca, pagg. 222, euro 22) e fanno del libro una meditazione sullo stile, testamento e (...)

(...) memoria, rivendicazione di ciò che si è stati, fiducia in ciò che sarà.

Venner si sparò un colpo di pistola il 23 maggio del 2013 nella cattedrale di Notre-Dame di Parigi: «Scelgo un luogo altamente simbolico, che rispetto e ammiro, perché fu costruita dal genio dei nostri avi su luoghi di culto più antichi, ricordando origini immemorabili». Aveva settantotto anni, una cinquantina di libri all'attivo, moglie e cinque figli, nipoti e amici, non era malato. Come sempre succede per i gesti di cui si è perduto il significato, quella morte volontaria venne derubricata dalla grande stampa d'oltralpe, troppo piccola per capire, a demenza senile, delirio estremista, patologia ideologica: un vecchio nostalgico dei tempi dell'Algeria francese, un omofobo, un islamofobo... Venner l'aveva messo nel conto: «Al crepuscolo della mia esistenza, di fronte agli immensi pericoli della mia patria francese e europea, sento il dovere di agire finché ne ho le forze; ritengo necessario sacrificarmi per rompere la letargia che ci opprime. Il mio gesto incarna un'etica della volontà. Mi do la morte per svegliare coscienze addormentate. Offro quel che resta della mia vita in un intento di protesta e fondazione». Le ragioni per vivere e quelle per morire sono le stesse quando a guidarle è il senso dell'onore.

Dominique Venner era un europeo, ma naturalmente con il circo Barnum dell'Europa dei trattati e dei mercati, avida, impaurita e ipocrita, non aveva niente a che spartire. Non era però nemmeno un teorico dell'arroccamento e/o della chiusura, dei confini come trincee, della sopravvivenza in quanto decadenza. Era anti-universalista perché il cosmopolitismo delle società consumistiche voleva dire «annientare le altre culture e le altre civiltà in favore di una pretesa cultura mondiale dei diritti dell'uomo che sono solo i diritti del mercato»; e perché imprigionava «gli occidentali in un etnocentrismo negante le altre culture». Proprio in quanto intimamente cosciente di ciò che doveva di essenziale alle sue origini, era «per il diritto fondamentale di tutti gli altri umani ad essere sovrani sulla propria patria, alla propria cultura, ad un radicamento che permette di essere se stessi a casa propria, e di non essere il nulla». Consapevole della vastità della crisi europea, di quella che definiva «il letargo dell'anima europea», non ne traeva però conclusioni apocalittiche e/o di scomparsa, il declino come fatalità: «Quando verrà il grande risveglio? Lo ignoro, ma di questo risveglio non dubito affatto. Siamo i primi Europei posti davanti all'obbligo di ripensare interamente la nostra identità attraverso un ritorno alle nostre fonti più autentiche. È un'Antichità vivente, che abbiamo il compito di reinventare. Un mito creatore. Questo non può avvenire soltanto con scritti e parole. Lo sforzo intenso di rifondare deve essere reso autentico da atti che abbiano un valore sacrificale e fondatore». Si esiste e si trasmette nella vita come nella morte.

È proprio questo a fare di Un Samurai d'Occidente un libro solare e non cupo, ricco di una pienezza di vita esemplare, breviario di una ribellione che non è disperazione. «La storia non è una scienza esatta e niente è mai in essa prevedibile. È sapere e poesia. Esistere è combattere quello che mi nega. Essere un ribelle significa essere legge a se stessi di fronte al nulla. Badare a non guarire mai dalla propria giovinezza». E ancora: «Nelle disgrazie, mai porsi la domanda dell'inutilità della lotta». Al centro del libro, una riflessione sull'Iliade e l'Odissea quali testi fondatori dell'anima europea, allarga l'orizzonte e lo chiarisce: «Le virtù cantate da Omero non sono morali, ma estetiche. Omero crede nell'unità dell'essere umano suggellata dai suoi atti, glorificata dal suo stile. Gli uomini si definiscono quindi secondo il bello e il brutto, il nobile e il vile. O, per dire le cose altrimenti, la pulsione verso la bellezza è la condizione del bene. Ma la bellezza non è niente senza lealtà né coraggio». È il bello che determina il bene.

Come il Cavaliere di Dürer, Dominique Venner è andato dunque verso il suo destino e il suo dovere, tra la Morte e il Diavolo, e il suo suicidio è la rivendicazione di un atto esemplare e non una fatalistica resa. Diceva Plinio il Vecchio che «anche Dio non può tutto: non può darsi la morte, anche se lo vorrebbe, il più bel privilegio che egli abbia accordato all'uomo, tra tutti i mali della vita». A Catone che si uccide con la propria spada, Plutarco attribuisce una frase magnifica: «Adesso mi appartengo». In altre parole, sottolinea Venner, «ormai, non sono più sottomesso a niente e a nessuno. Dipende solo da me».

Stenio Solinas

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