
Chi ha una visione corre il rischio di trasformarsi in visionario. Non c'è prudenza che possa attenuare questo rischio. L'unico antidoto è un'ostinata onestà intellettuale. Tutt'altra cosa rispetto all'obiettività. Questa ti tiene con i piedi ben piantati in terra, fino al punto da farti divenire scontato.
L'altra ti consente di volare.
C'è una bella differenza. La deve tener presente chi, cinquant'anni dopo, si avvicina a questa pagina di Ionesco vergata il 19 gennaio 1975. Meglio metter da parte la matita rossa e blu del piccolo maestro. Consentirebbe, al più, di segnalare gli errori di previsione. Al prezzo di smarrire le traiettorie di voli arditi e fantastici.
Nel 1934 il mondo era sconvolto da un processo di secolarizzazione dagli esiti tragici. André Malraux, che di religioni civili s'intendeva per averle praticate, affermò che il Ventunesimo Secolo sarebbe stato il secolo della spiritualità. Si è dovuto attendere fino a Samuel Huntington per comprendere il senso di quella previsione. Nel 1975 Eugène Ionescu si colloca in quella scia. È già proiettato oltre la Guerra Fredda. Intravede la precarietà dell'allora stabilissimo ordine mondiale. Immagina i rischi a cui va incontro un Occidente già afflitto dal crollo verticale della sua autostima. E immagina l'emergere di nuove fratture che nulla più hanno a che vedere con comunismo e anticomunismo.
È terreno impervio quello sul quale si avventura. Eppure, quanta attualità e quanta parte di verità si ritrovano nelle sue parole. Le si apprezza ancor di più quando Ionescu passa a trattare ciò che di immutabile vi è nella natura umana.
È il suo pane quotidiano; l'essenza stessa della sua arte. Il diario si fa, così, progressivamente sempre più intimo. Ionesco disvela la meccanica del potere. Individua i pericoli insiti nelle rivoluzioni d'ogni tempo e colore. Descrive la consistenza di libertà e cultura e, soprattutto, della libertà della cultura. Evidenza, senza inutile acrimonia, quando questa si fa egemonia e, inevitabilmente, si trasforma in simulacro. E tutto questo senza concedere niente alla filantropia.
Si spoglia di ogni remora di falso altruismo. Parte da sé e dalle sue urgenze. Perché, in fondo, è ciò che conosce meglio. Vale per tutti.
La differenza è tra quanti utilizzano quel sapere per ripiegarsi su sé stessi
e quanti, invece, lo fanno per abbracciare l'umanità e i suoi destini avvertendone peso e responsabilità Ed allora non ci si può stupire se solo di questi, dopo cinquant'anni, vale ancor la pena leggere ciò che scrissero.