La Spagna? Siamo senza parole. Come il loro inno...

Ci hanno battuto in tutti gli sport, volevano anche darci lezioni in politica. Sono ingordi: ma possiamo davvero invidiarli?

Credo che stiano esagerando. Dico degli spagnoli. Ingordi. Pechino, giochi della ventinovesima Olimpiade, pronti via e che ti combina el señor Sanchez? Piazza la sua bicicletta, mezza ruota, tanto basta, davanti al nostro Rebellin di nome ma non di fatto. Sul podio, oro, arriba España, cominciamo, anzi cominciano bene, un’altra volta. Non bastavano Contador al Giro e Sastre al Tour o Sua Racchetta Nadal al Roland Garros e a Wimbledon, nemmeno la nazionale di baloncesto, oro in Giappone e argento a Madrid, o le saette rosse di Luis Aragones campioni d’Europa di football, dopo il titolo analogo dei ragazzini under 17. No, la comilona, la grande abbuffata, continua, come ti muovi ti fulminano e ti magnano, spagnoli dovunque, olè, dalla Incontrada alla Estrada (scambio alla dispari con la Carrà), da Joaquin Cortes a Domingo e Carreras che, però, senza il grandissimo Luciano Pavarotti non sono i tenores di prima e nemmeno di dopo. Dunque saremmo al solito repertorio, nacchere, flamenco, paella, corrida e jamon pata negra. E poi? In verità avevano incominciato tentando di scipparci il Colombo, nel senso di Cristoforo, per loro Cristobal, a denominazione di origine incontrollata, roba catalana per intenderci, la scoperta delle Americhe sarebbe stata idea loro, per ordini di corte. Il contenzioso resiste al logorio della storia moderna ma le caravelle sono nostre e guai a chi ce le tocca. La famiglia reale invece resiste e viaggia da Madrid per ogni dove, ingessata, incerata, a volte sembra virtuale più che reale, come al museo di madame Tussaud; Juan Carlos è sempre uguale a se stesso, tifoso del football di attacco ma rigoroso difensore dei valori patrii; porque no te callas, perché non taci?, fu lo strillo suo allo squinternato Chavez che attaccava il regime passato (la settimana scorsa il re ha donato al venezuelano una camiseta che porta stampata sul petto la frase ormai storica). Agli ultimi campionati d’Europa di calcio il sovrano si è presentato come portafortuna per la squadra, accompagnato da scorta dotata di defribillatore e bombola di ossigeno, mentre la di lui consorte, Sofia di Grecia, trascorreva minuti venti nel bagno della tribuna d’onore, rigorosamente blindato e piantonato, per rifarsi il trucco e affini, mentre davanti alla toilette la coda di gentil donne aumentava nervosamente con il passare dei secondi e delle urgenze. Espletata la formalità la coppia ha assistito alla eliminazione ai calci di rigore della squadra azzurra ma è roba piccola rispetto al nostro triunfo mundial dell’Ottantadue, davanti allo stesso re, alla stessa regina ma con Pertini e Tardelli per noi. Ognuno ha la casta che si merita. Ci hanno portato via, nel calcio, qualche campione e campioncino, Giuseppe Rossi e Cannavaro, Zambrotta e Carboni, Moretti e Maresca, mentre non si hanno notizie di futbolisti iberici contemporanei nella divisione nazionale serie A, dopo il tempo glorioso di Luis Miramontes Suarez, Joaquin Peiro, Luis Del Sol, o di Martin Vasquez o Victor, per non parlare dei bluff Josè Mari e Xabi Moreno; abbiamo esportato i cervelli da panchina, los entrenadores Capello, Sacchi, Ferrari e Maifredi e loro? Nada de nada. Si sono inventati i nuovi maestri di cucina che operano più in laboratorio, tra fumi, vapori, sifoni, soluzioni chimiche che tra i fornelli ma alla fine domandano spaghetto al dente; sognano, invano, di tagliare e cucire meglio nei nostri stilisti di sartoria ma si vestono all’italiana; inseguono un made in Spain ma sbuffano ancora impolverati nel cantiere della Sagrada Familia, hanno Montalban ma noi Montalbano che rispetto a Pepe Carvalho ha un Camilleri in più (o in meno?).
Per anni terra di conquista dei nostri latin lovers o pappagalli, da Torremolinos a Ibiza e Formentera, la Spagna si sta vendicando, non soltanto nelle discipline sportive. Passata dai baffettini di Aznar al viso da mister Bean di Zapatero ha preso a stuzzicare il governo nostrano, nella persona di Silvio Berlusconi ovviamente, dimenticando i problemi del terrorismo interno, alla voce Eta.

Il vicepremier Maria Teresa De La Vega ha definito le norme sull’immigrazione clandestina «razziste e xenofobe», il ministro del lavoro e dell’immigrazione Celestino Corbacho ha aggiunto un bel carico dicendo che il governo italiano «criminalizza chi è diverso mentre quello spagnolo si assume la responsabilità di gestire il fenomeno», poi è spuntato un altro ministro Aidò Almagro che ha consigliato a Berlusconi cure psichiatriche, costringendo il segretario degli affari europei Diego Lopez Garrido a mettere una pezza, ridimensionando le parole dei colleghi ma sollevando il problema «perché il reato di clandestinità introdotto in Italia creerebbe pensieri e guai ai Paesi confinanti», come dire teneteveli voi, por favor. Se non cantano l’inno è perché nessuno ne ha scritto le parole. Meglio così, altrimenti le avremmo già imparate a memoria.

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