All'indomani della Prima guerra mondiale la Francia, uscitane vittoriosa, pensa che toccherà alla Germania sconfitta saldare tutti i debiti. «Paga la Germania» è il refrain alla moda con cui a Parigi e dintorni si celebrano gli anni Venti, che i più vedono come una prosecuzione, tanto ideale quanto economica, di quella Belle Epoque bruscamente interrotta dal colpo di pistola di Sarajevo Si illudono, naturalmente, ma non lo sanno, e però anche i più avvertiti preferiscono non stare a sottilizzare più di tanto. Troppo grande è stato l'orrore di quel conflitto, pensano, perché qualcuno voglia, o possa, ancora riprovarci e quindi, e forse, quella lì è stata veramente «la guerra» fatta per «mettere fine a tutte le guerre»...
Dato atto del patriottismo di chi l'ha combattuta e di chi c'è morto, dei feriti, dei mutilati, dei decorati in genere, il sentimento che sempre più si comincia a provare, e di cui sempre meno ci si vuole vergognare, è quello che un ragazzo di tredici anni si prova a riassumere già nell'anniversario del primo anno di pace: «Cominciamo ad averne abbastanza. Ormai è finita, che diamine! Scordiamocela».
Il ragazzo in questione si chiama Maurice Sachs (1906-1945), è di buona famiglia, non ha preoccupazioni economiche, «sono passato alla banca, ho speso tre mensilità in un solo mese», ha appena cominciato a tenere un diario: «Ho riletto adesso queste pagine. Buon Dio, quanto sono frivolo! Eppure non sono più stupido di altri, più incolto, né incapace; è che non ho ancora voglia di essere serio. L'aria è frizzante come lo champagne».
Nel 1939, quel diario, più o meno vero, più o meno falso, più o meno riscritto con il senno di poi, diverrà un libro, Au temps du Boeuf sur le toit, Ai tempi del Boeuf sur le toit, ora uscito da Lindau (pagg. 249, euro 22, traduzione di Federico Zaniboni), e sarà l'unico da lui pubblicato in vita, se si esclude Alias, una sorta di autobiografia in forma di romanzo uscita quattro anni prima e subito caduta nel dimenticatoio. «Mio caro Maurice» gli ha detto allora Jean Cocteau, «nella vita potrai fare tutto quello che vorrai, salvo una cosa: essere scrittore». Quella frase gli è rimasta nel cuore come una scheggia. La tiene lì perché spera un giorno di gettarla in faccia a chi la pronunciò, ma non si decide mai ad estrarla, perché sa che è vera.
Il fatto è che allo scrivere Sachs preferisce il vivere, ma negli anni Venti della sua adolescenza è la scelta che fanno un po' tutti: «Ci sono voluti dieci anni per smaltire questo fiume di esseri umani, di felicità e di ottimismo. Per dieci anni i bar, i salotti, i negozi, i teatri, le strade, le finestre, sono stati gremiti ovunque: abbiamo sfilato per dieci anni interi. Nel 1929 tutti sono tornati a casa e si è alzato il sipario su un altro spettacolo: la Crisi, dramma in dieci atti. (E forse uno dei principali difetti del programma è stato quello di cominciare con l'apoteosi)».
Quando insomma dà alle stampe il suo «diario di un giovane borghese all'epoca della prosperità» Sachs è appena un trentenne, ma «a trent'anni, in un'epoca come la nostra, si è già irresistibilmente vecchi». La giovinezza passa come un lampo, ma gli anni Venti, dal già citato Cocteau al giovanissimo Radiguet, da Morand a Malraux, da Drieu a Montherlant vedono anche una generazione che avanza passo di carica sgranando capolavori e non facendo prigionieri. Quelli come Sachs sono poco più che dei compagni di strada: frequentano gli stessi luoghi, conoscono le stesse persone, raccontano gli stessi aneddoti. Ciò che gli manca è il genio, il demone della scrittura, il sudore della scrittura, nonché l'alta considerazione di sé stessi e della loro opera: «Non sono in grado di tenere questo diario tutti i giorni, sono troppo occupato. Dio, quanto è impegnato un uomo ozioso!».
Guardandosi allo specchio, Sachs si accorge che sta perdendo i capelli, sta ingrassando, quello che gli resta in bocca «è un sapore come di cenere, che non è la cenere del passato. È qualcosa che sfugge alla nostra comprensione: è la cenere del futuro, quella di un incendio non ancora divampato». Si ritiene un giovane «traviato nel vero senso della parola», perché parte di una gioventù a cui era stato detto che non esisteva altro «se non la poesia e la rivolta. Rimbaud, gli angeli e i demoni. Le hanno mostrato come appendere un crocefisso ai gabinetti (surrealismo fecit), come fumare l'oppio (Cocteau fecit), diventare alcolizzati, scrivere senza dir nulla, fare l'amore con chiunque e trovare il sublime in tutto. I danni causati dal dopoguerra ormai non si contano più».
Questo miscuglio di disincanto e lucidità, superficialità e amarezza non riesce mai a trovare la forma giusta per raccontarsi veramente. Ai tempi di Le Bouef sur le toit è una cronaca che spesso e volentieri si fa elenco bulimico di nomi di persone, di cose, di fatti, come se di demandasse a una seconda vita, quella di scrittore, il passaggio successivo. Crede sempre Sachs che ci sarà ancora tempo. In fondo, negli anni Venti è stato qualcuno, pur continuando a essere nessuno: discepolo di Cocteau, Maritain come padrino di battesimo quando da ebreo si è fatto cristiano, amico di Max Jacob, uno, appunto, di quelli di Le boeuf sur le toit, ovvero del concentrato dei pittori, dei romanzieri, degli intellettuali dell'epoca. Solo che a partire da Wall Street e poi dal minaccioso risvegliarsi di quella Germania data per sconfitta per sempre, negli anni Trenta la storia ha ripreso a correre e stanno per arrivare i tempi di ferro, quando le nazioni imbracciano le armi e l'unico gioco possibile è il gioco al massacro. Sachs si illuderà anche allora che nulla sarebbe cambiato e tutto solo più eccitante, ma il giovane ozioso e seducente che fu ha lasciato il posto al piccolo trafficante di amicizie e di debiti, inaffidabile e sempre a corto di soldi, una vittima della grande crisi borsistica che non si rassegna alla povertà. La guerra, l'occupazione, il collaborazionismo faranno il resto e Sachs andrà incontro alla sua morte, lavoratore volontario in Germania, scambiandola per la più affascinante delle avventure: confidenze pericolose, mercato nero, amori clandestini, promiscuità. Finirà con un colpo di pistola alla tempia.
Cocteau, il maestro da lui in seguito rinnegato, per spiegare l'impunità di Dargelos, il protagonista degli Enfants terribles, scrive che la pena di morte non esiste nei licei. Il liceale mai cresciuto Sachs commise l'errore di credergli.
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