Ascesa e caduta di Griboedov, il poeta che la Russia sacrificò

Torna il grandioso affresco vergato da Jurij Tynjanov che porta il lettore nei meandri della Mosca ottocentesca

Ascesa e caduta di Griboedov, il poeta che la Russia sacrificò

Ci sono romanzi che sono bei romanzi, magari grazie ad una prosa folgorante, o alla capacità dell'autore di cogliere inedite sfumature dell'animo umano. La morte del Vazir-Muchtar di Jurij Tynjanov - che ora ritorna in libreria per i tipi di Edizioni Settecolori (pagg. 584, euro 26, con una postfazione di Armando Torno e una praticamente inedita prefazione di Louis Aragon) - ha entrambe le caratteristiche che abbiamo elencato sopra. Ma ne ha anche altre, la capacità di cogliere la Zeitgeist della Russia degli anni Venti dell'Ottocento e poi di cogliere linee di forza sotterranee, caratteristiche profonde dei singoli e di una cultura politica, che con il senno di poi sono giunte sino al XXI secolo. Insomma è un capolavoro ritrovato. E se a dirlo fosse lo scrivente il giudizio potrebbe essere rapidamente archiviato nella tipica iperbole dei giornali e nell'empireo dell'irrilevanza. Ma è un giudizio di Louis Aragon (1897-1982): «Avrei voluto scriverlo io. Cos'altro volete da me se non questo rimpianto manifesto?». E ancora: «Non ho mai letto niente di più abbacinante di questo intrecciarsi convulso di uomini e donne...».

Ma veniamo all'autore e poi alla vicenda narrata, per aiutarci a dar conto del giudizio di Aragon, visto che non era facile indurre all'invidia letteraria questo gigante della cultura francese. Jurij Tynjanov (18941943) è stato scrittore, filologo e critico letterario. Per anagrafe ha attraversato gli sconvolgimenti che hanno portato l'Impero degli Zar ad implodere e ha visto sorgere sulle sue ceneri l'Urss, prima rivoluzionaria, poi trasformata in una nuova autocrazia stalinista. Intellettuale raffinato, studioso dei classici della letteratura slava e anticonformista è stato uno degli animatori del formalismo russo. Passato attraverso il complicato e asfissiante rapporto tra il regime e gli intellettuali è approdato nella fase finale della sua vita, funestata dalla sclerosi multipla, al romanzo storico. Romanzo che animava a partire dalle sue enormi conoscenze, soprattutto sull'epoca del poeta Puskin (1799-1837), che è anche uno dei protagonisti di La morte del Vazir-Muchtar. Sicuramente la sua opera più complessa e matura, quella che meno ottenne il consenso della critica sovietica perché, carica di un possente pessimismo, metteva il dito nelle piaghe che non erano solo e soltanto quelle dello zarismo. Anzi.

Al centro della narrazione c'è un martire che è tutt'altro che un santo, a meno che non esistano santi del disinganno. Si tratta di Alexandr Griboedov (1795-1829), diplomatico e autore di teatro che negoziò il trattato di Turmanchay, fondamentale per fermare la guerra con la Persia e consentire alla Russia di attaccare la Turchia. Ovviamente per occupare la Crimea...

Griboedov, noto soprattutto per la commedia censurata Che disgrazia l'ingegno!, consente a Tynjanov di mettere in scena una morte annunciata. Vazir-Muchtar era infatti il suo rango ufficiale come plenipotenziario russo in Persia, dove venne massacrato dalla popolazione mentre negoziava l'applicazione delle clausole del trattato di pace, che molti a Teheran ritenevano oltraggiosamente pesanti. E il romanzo segue passo passo le peregrinazioni di Griboedov, che all'inizio torna in patria con la pace che tutti vogliono. Manca da Mosca da quattro anni, trova i vecchi rivoluzionari decabristi che avevano cercato di rovesciare lo Zar ridotti a macchiette da parata, da ministero o da teatro. Chi è sfuggito alla prigione si è rifatto una vita, si è inserito nel meccanismo. «Era facile morire per una ragazza oppure per una società segreta, più difficile morire per un kammer-junker». Sì, non è bello morire per il titolo di valletto da camera. Poi ci sono i vecchi generali, che cercano di vincere le guerre da un tavolo, addormentandosi sulla cartina. Gli amici che sognano l'Inghilterra, che vogliono la modernità e poi chiedono in prestito 50 rubli. E i parenti? I parenti vogliono il successo di Griboedov, vogliono rimandarlo in Persia perché la Persia vuol dire ricompense in denaro. E poi la Corte, la macchina polverosa ma feroce che circonda lo Zar: un monarca che crede che niente funzioni senza una buona guerra. Quando Griboedov viene ammesso prima al cospetto del ministro Nesselrode e poi del monarca a Pietroburgo gioca la sua partita da funambolo della carriera: «Alle dieci si era fatto la barba e aveva indossato la biancheria pulita, come si usa prima di morire o prima di fare un esame». L'esame è passato, la morte è assicurata. Arriva molte pagine dopo per mano di una folla inferocita, armata di pietre e di martelli. Ma quanto sono distanti il ragazzino persiano con un coltello da macellaio e il ministro con i bottoni dorati e la divisa di panno verde? Quando il pedone Griboedov, che forse si era sognato alfiere, impugna un fucile e spara mentre i suoi cosacchi vengono sopraffatti e fatti a pezzi, chi lo uccide? Un rosticcere che poi va a spasso con la sua testa conficcata su un'asta o la politica di Pietroburgo? Del resto la corte non era «il luogo dove tutto era già noto in precedenza», un luogo «dell'ordine assoluto, delle verità false», dove tutti sembrano già o troppo vivi o troppo trapassati? A partire da Nesselrode: «Egli sedeva, terribile, senza nessuna espressione sul piccolo viso grigio e indossava un abito strano, quasi da buffone».

La sciarada che conduce alla morte di Griboedov, incapace di sottrarsi al suo destino, è tragica e difficilmente sarebbe potuto sfuggire a qualcuno che la fatale parabola descritta non era una parabola zarista, semmai una parabola adatta a descrivere ogni regime, ogni rivoluzione che muore nell'accettazione del potere, nella ferocia di una guerra, nelle paci ingiuste. Una parabola che Griboedov nel romanzo vede ma non sa allontanare, nemmeno da se stesso. Se ne rammenta Puskin, mentre un corpo raccogliticcio che viene fatto passare per Griboedov viene riportato in patria. «All'improvviso si ricordò... Griboedov lo aveva toccato sulla spalla con la mano sottile e aveva detto: Io so tutto. Voi non conoscete quegli uomini. Quando lo Scià morirà, useranno i coltelli». Ma se sapeva perché era partito? E la risposta, una risposta attualissima, è: «Il potere... il destino... la necessità di rinnovarsi... Sentì freddo al viso».

Lo sentirà anche il lettore nelle pagine finali, mentre frammenti di corpo rimessi insieme vengono portati verso la Russia, su un carro. E alla domanda: «Cosa portate?» si risponde: «Griboed». Perché ai morti si leva tutto, persino il nome.

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