«Mi misi a leggere e fui felice» scriverà Stendhal alla sorella Pauline, nel 1803, per spiegarle come fuggire dalle durezze della vita. Lui ha vent'anni, lei ne ha diciassette, ma il primo si crede già un uomo di mondo, ha «combattuto» con Napoleone in Italia, vive da solo a Parigi, ha un'amante, mentre la seconda è relegata in provincia, a Grenoble, un padre austero e avaro, un'educazione cupa e ristretta, l'attesa di un marito. Con Pauline, Henri è se stesso: «Per gli altri a cui scrivo adatto i miei pensieri, per te no. Non mostrare le tue lettere e le mie a nessuno. Non voglio, quando scrivo col cuore, sentirmi a disagio». Nel 1808, quando finalmente lei andrà in sposa le ingiungerà di bruciare la loro corrispondenza: «Occorre distruggere tutto» scrive, chiedendo in tal senso la sua «parola d'onore». A giudicare dalla quantità di lettere arrivate sino a noi (Il laboratorio di sé. Corrispondenza 1800-1821, tre volumi, a cura di Vito Sorbello, Aragno, 2287 pagine, 105 euro) quel «giuramento» non verrà rispettato
Proprio perché è una sorta di specchio su cui riflettere se stesso, la sorella minore serve a Stendhal come banco di prova e di costruzione, svela una progetto letterario-esistenziale, con tutti i dubbi che esso comporta e gli aggiustamenti. È importante dunque per capire l'uomo che sarebbe voluto essere, lo scrittore che poi sarà. Di là dalle annotazioni, come dire, stilistiche - «osare essere semplici», «scrivi come parli», «non cercare di scrivere bene. In ogni genere, guai a chi si sforza», «scrivere senza mai sorvegliarsi» - quello che emerge è l'essenza stessa del beylismo: Beyle era il suo vero nome e Stendhal l'ennesimo, per quanto definitivo, travestimento di chi sarebbe stato definito «un maniaco degli pseudonimi».
Nel 1812, quando Henri non ha nemmeno trent'anni e il romanziere deve ancora attendere un decennio per decidersi a venir fuori, nelle lettere inviate a Pauline «il male del vivere» del suo secolo è già tutto delineato, così come, pur se con fatica, la sua cura. Da un lato c'è il «sentirsi infelici» come cosa nobile, gli «annoiati noiosi» che popolano il mondo come «un'infinità di piccole solitudini confinanti, in cui ogni infelice attende con impazienza la morte», «l'eccesso di serio» e la reazione da «bambino viziato». «Tutte le sublimi emozioni che il romanzo fa desiderare appassiscono in pochi giorni» ammonisce nella sua veste improvvisata di pedagogo: «Meritavo una sorte migliore, perché non trovo uomini come me?» non è altro che il narcisismo applicato al romanzesco, la finzione spacciata per realtà, l'io che condanna il proprio destino, la propria vita e insomma si autocondanna alla malinconia del vivere.
Dall'altro lato invece c'è la vita vera, ovvero la realtà. E dunque bisogna prenderne atto, pur se occorre fissare il limite entro cui muoversi: «Se i romanzi mostrassero il mondo com'è, farebbero orrore anche su chi la pensa a quel modo, lascerebbero un'impressione di tale tristezza che indurrebbe a evitarlo». Per certi versi «è meglio essere ingenui, anziché scettici» e lungo il sottile discrimine che corre fra la rappresentazione brutale della realtà e la sua idealizzazione come magnifica illusione di cui non si può fare a meno, pur sapendo però che finirà in tragedia, correrà tutta l'arte romanzesca di Stendhal, da Il rosso e il nero alla Certosa di Parma, ovvero il racconto di un mondo che si sente ancora cavalleresco, ma affonda invece nella democrazia dell'utile e del prosaico. ietro insomma alla maschera disincantata di chi vorrebbe farla finita con il romanticismo, si cela il volto e l'animo di chi di quella «malattia del vivere» è intriso sino al midollo: l'unica differenza rispetto a chi soffre dello stesso morbo è che lui l'ha perfettamente diagnosticato e non vuole rimanere infermo a vita. «La Francia è povera di letteratura» afferma in una lettera del 1818, a significare che dal punto di vista della scrittura lì è tutto strumentale: il pamphlet come il trattato, il libro storico come quello scientifico. Ora, osserva ancora Stendhal a proposito del genere chiamato romanzo, nel XIX secolo non si può più avere soggetti romanzeschi legati al passato, nel passato ancorati. La modernità deve accogliere il vero, il suo racconto deve svolgersi nella realtà e però non restarne pedissequamente prigioniero, ma inverarla nell'illusione. Ecco perché è l'Italia il Paese naturale dei romanzi: è luogo romanzesco in sé, dove il romanzo lo si vive, e dunque non lo si scrive Da qui il paradosso, tipicamente beyliano, della Francia Paese non romanzesco che è patria di romanzi, e dell'Italia, di per sé un unico grande romanzo, che però li ignora Costruendosi una filosofia artistico-esistenziale su misura, Stendhal cerca insomma di sfuggire al suo tempo senza per questo rinnegarlo e così rinnegarsi. Il Julien Sorel costretto a indossare l'abito talare prova quello che Stendhal avrebbe provato al suo posto: «Ahimé, vent'anni fa avrei indossato anch'io l'uniforme come loro! Un uomo come me, allora, o veniva ucciso o diventava generale a trentasei anni». A trentasei anni, senza essersi fatto prete, ma non essendo divenuto generale, Stendhal è ancora intento a scrivere una Vie de Napoléon, ha pubblicato Rome, Naple et Florence, e l'ha firmato «Stendhal, ufficiale di cavalleria», non ha una rendita, soffre di depressione
Lentamente, fra mille ostacoli, l'ambizioso «uomo d'azione» che si era illuso di «svoltare» con Napoleone cede il passo al viveur sentimentale che ama «perché mi fa piacere» e prepara il grande romanziere destinato però a non essere capito dal suo tempo: «Mi
leggeranno nel 1880» si consola Le lettere raccontano questo lungo periodo di apprendistato e insieme fanno da laboratorio per un'esplorazione dei sentimenti e dell'io che ha pochi rivali nella letteratura degli ultimi due secoli.
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