Cultura e Spettacoli

Basta una "Promessa" a cambiarci la vita

Damon Galgut racconta la storia drammatica di una famiglia afrikaner. Che poi è quella di tutti

Basta una "Promessa" a cambiarci la vita

Come il protagonista del romanzo a cui lavora per vent'anni, anche Anton Swart si potrebbe descrivere così: «È un giovane sulla soglia della sua vita adulta, ma tutte le sue promesse si esauriscono nella miserabile lotta per la sopravvivenza». Già, perché esiste un confine fra vivere e sopravvivere, e la vita ce lo ricorda di continuo: e, paradossalmente, più cerchiamo di dimenticarcelo, più quella differenza non sottile torna ad assalirci. Il fatto è che, a volte, più ne siamo consapevoli, più cerchiamo di nasconderlo a noi stessi, e più quell'oscuro tormento si ripresenta, come una malattia a cui non badiamo ma che, non per questo, smette di roderci dentro. Ed è proprio quello che accade ad Anton Swart, protagonista maschile di La promessa, il romanzo con cui mercoledì scorso il sudafricano Damon Galgut ha vinto il Booker Prize 2021, il premio più prestigioso d'Oltremanica, e che è appena stato pubblicato in Italia da e/o (pagg. 282, euro 18; traduzione di Tiziana Lo Porto). Proprio come il romanzo che lo stesso Anton cerca di portare a termine, vanamente, anche La promessa si può descrivere come «una saga familiare», o come «la storia di una fattoria» nell'Alto Veld, in Sudafrica: infatti, le vicende della famiglia Swart, bianchi non particolarmente ricchi, discendente da coloni olandesi, si svolgono in questa terra ancora impregnata di vocaboli afrikaans, di separazioni razziali, di antichi privilegi, di decadenze contemporanee, di calvinismo nostalgico e, più di tutto, di un malinconico senso di sconfitta. Perché quel confine fra vivere e sopravvivere emerge, chiaro, nei momenti in cui la vita si trova al cospetto della sua conclusione inevitabile; e, in poco più di trent'anni (quanto dura la narrazione), la morte tocca la famiglia Swart quattro volte. In pratica, la dissolve.

Prima tocca a Rachel, «Ma», la matriarca, che prima di morire estorce una promessa al marito Manie: la loro cameriera di colore, Salome, avrà la casa in cui abita, sulle loro terre. «Pa», ovvero Manie, non ci pensa neppure a ottemperare a quella promessa, a cui pure ha acconsentito; per la verità, poiché è il 1986, non potrebbe nemmeno donare la casa a una donna di colore, la legge non lo consente. Se Anton e la secondogenita Astrid non si preoccupano più di tanto del destino di Salome, Amor, la più piccola dei tre fratelli, non si dà pace, anche perché ha sentito con le sue orecchie il padre fare quella promessa alla madre. Però Amor è considerata la «strana» di famiglia, perché a sei anni è stata colpita da un fulmine sulla koppie, la collinetta dietro casa. Ci ha rimesso soltanto un mignolo ma, da allora, pare vivere in un mondo tutto suo.

Ed è proprio questo il punto, vivere. Mentre la famiglia Swart va in pezzi, a partire da quella promessa mai mantenuta, e della quale, di funerale in funerale, e di testamento in testamento, tutti continuano a infischiarsene, Amor non dimentica: lei conosce la differenza tra vivere e sopravvivere, e sa che l'apparenza inganna. I suoi famigliari la disprezzano perché ha deciso di votarsi alla cura della sofferenza altrui (prima i malati di Hiv, poi i senzatetto e i poveri), scherniscono il suo istinto di autopunizione, la trasandatezza a cui si è lasciata andare, il suo isolamento; eppure, in quella esistenza minimale, piena di dolore e di manie, Amor ha continuato ad alimentare la fiamma esigua della vita.

Astrid, la sorella che insegue ricchezza e potere, non può capirla. Anton sì, ma Anton sa, anche, di avere sprecato la propria vita; ed è troppo forte il peso del giudizio che sente provenire dalle scelte opposte di Amor. Quanto al padre, beh, lui è troppo preso dall'afflato religioso, riscoperto con la chiesa riformata olandese del reverendo Swimmers (praticamente cieco), e decide di mettere la sua fede alla prova stabilendo il record di sopravvivenza in un terrario. Fino a che un cobra lo morde...

Nel frattempo, nel susseguirsi dei funerali e dei ritorni a casa dei fratelli Swart, il Sudafrica passa dall'apartheid alla liberazione di Mandela, dalla presidenza di Mbeki a quella di Zuma, dall'odioso razzismo dei fondatori della segregazione alla corruzione dilagante e all'egualitarismo di facciata della politica contemporanea: anche in questo caso, promesse non mantenute, che si traducono in tentativi di sopravvivenza, ma che Galgut (nato a Pretoria nel '63, ha iniziato a scrivere da ragazzino, dopo un linfoma, ha pubblicato il primo romanzo a 17 anni ed è già stato finalista altre due volte al Booker Prize) racconta senza moralismi, con l'ironia di chi guarda la vita da quel suo confine, perché sa che è facile finire dall'altra parte. Non a caso il linguaggio del romanzo, pur mantenendo il passo di una piccola epopea, è così asciutto che mancano addirittura le virgolette nel discorso diretto.

Galgut si è detto convinto che i romanzi non servano a cambiare il mondo. Lo lascia intendere anche nella Promessa, sempre per bocca di Anton. A un certo punto, un vecchio commilitone gli chiede di che cosa parli la sua opera incompiuta: «Oh, dice Anton, dei tormenti della condizione umana. Niente di originale».

Tra il fallimento e la vittoria, a volte, è questione di attimi, come un fulmine che ti colpisca all'improvviso.

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