Bob Dylan merita cellulari spenti

Bob Dylan merita cellulari spenti

«La risposta, amico mio, soffia nel vento». L'altra sera, alla Konzerthaus di Vienna, Bob Dylan si è arrabbiato perché il pubblico lo stava mitragliando con i flash dei cellulari e ha chiesto di smetterla. Poi ha fatto qualche passo indietro sul piccolo palco pieno di cavi, strumenti e monitor e, come ogni essere umano che perde la pazienza, ha perso anche l'equilibrio, rischiando di cadere. Fortuna che il suo bassista Tony Garnier gli ha impedito il capitombolo consentendogli di tornare di fronte al pubblico per fare la domanda delle domande: «Voi potete fare foto o non farle, noi possiamo stare fermi o in posa». O l'uno o l'altro, scegliete. In realtà, caro Bob Dylan, la risposta sta soffiando nel vento da qualche anno con la stessa velocità che, per altri versi, lei ha sintetizzato nel capolavoro Blowin' in the wind. Ai concerti oggi la gente ama fare foto e fare video e postare tutto subito su Twitter o su Instagram o su Facebook. È il nuovo (irrinunciabile?) rituale della condivisione. Un vento inarrestabile. Per qualcuno, è giusto, bello, innovativo. Per altri è una sorta di harakiri, un modo di castrare l'emozione istantanea della musica dal vivo. Chissenefrega se qualcuno davvero la assaporerà, l'importante sono i cuoricini, i like o le stelline di apprezzamento al post. In ogni caso, i concerti sono ormai un mitragliamento di lucine, di flash, di display illuminati ad altezza uomo. Una volta c'erano gli accendini che si infiammavano durante le «ballate» più famose dell'artista ed era uno dei momenti «cult» di ogni grande evento. Adesso si infiammano gli smartphone dalla prima nota fino a esaurimento batteria. Molti artisti, compresa la nostra Gianna Nannini già qualche anno fa al Pala Alpitour di Torino, si sono arrabbiati entrando nella scia di musicisti classici o direttori d'orchestra sempre più imbestialiti dalla frenesia fotografica. In effetti la musica pretende concentrazione. Però bisogna distinguere. Per il pubblico di un rapper o di un trapper è spontaneo filmare e condividere, è una regola di vita social. Per altri tipi di pubblico, ad esempio quello di Bob Dylan, è meno inevitabile e quindi, una volta tanto, questo Premio Nobel non è andato controcorrente. È comprensibile, persino giustificabile, che un 78enne stravissuto e stramitizzato, un santone che ha suonato i primi concerti nel '58 al 10 O'Clock Scholar di Minneapolis ora s'incazzi se il pubblico fissa gli occhi sull'obiettivo invece che su di lui.

È meno comprensibile che chi lo segue da sempre, e quindi è ampiamente sugli «anta», si adegui a un rituale da gggiovani confermando l'omologazione generazionale che il loro eroe contesta da sempre. Perciò la risposta sta soffiando implacabile nel vento. E, oggi come allora, far finta del contrario sarebbe da stupidi.

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