Brullo in "Lince" fa risuonare la voce di Hölderlin

Non sbaglia Giancarlo Pontiggia a citare Dante Alighieri e l'Apocalisse tentando di circoscrivere l'ultima raccolta di versi di Davide Brullo

Brullo in "Lince" fa risuonare la voce di Hölderlin

Non sbaglia Giancarlo Pontiggia a citare Dante Alighieri e l'Apocalisse tentando di circoscrivere l'ultima raccolta di versi di Davide Brullo (Crocetti editore, pagg. 108, euro 12) il cui titolo, Lince, subito palesa i propri riferimenti. Ma è un dire per mascherare: più propriamente, Brullo sembra evocare Hölderlin e, anzi, l'Hölderlin echeggiato da Paul Celan, volendo innanzitutto riflettere così ci sembra sul senso e la funzione della parola poetica in un tempo di povertà. È un'interpretazione, una delle tante possibili letture di fronte alla sovrabbondanza di temi a cui ci ha abituati Brullo e alla complessità anche in questo caso di una scrittura che trascende ogni tentativo di immediata esegesi e che ne fa il poeta assoluto della sua generazione.

L'indizio è il termine «pallaksch», scritto in corsivo e riportato a mo' di unico esergo in uno dei componimenti della prima parte del libro di Brullo, una parola inventata che Hölderlin ormai pazzo usava talvolta come un si, altre volte come un no, una sorta di balbettio intuisce Celan che, a sua volta, la post-pone a chiusura a una delle sue più celebri poesie, Tubinga, gennaio (strepitoso l'incipit: «A cecità convinti occhi.»), in cui citando Hölderlin scrive dell'inanità del poeta: «potrebbe,/ se parlasse di questo/ tempo, solamente/ bal-balbettare/ conti-, conti-,/ nuamente, mente.//». Ne è conscio Brullo per cui «un alfabeto nasce nel balbettio per frode // e concessione», e si affilano «i nomi per svalutarli», e si fa poesia «per manomettere i nomi raggelare/ una verità nell'altra», perché in definitiva «tutto è nel lampo è irripetibile».

Eppure, c'è in Brullo speranza di dare risposta, per dirla con Agamben, a cosa significhi «abitare poeticamente» il mondo, non limitandosi a balbettare: «dilaga una chiacchiera/ dimmi che possiedi la perla e il silenzio/ che la fiamma fiorirà in un verbo/ più duraturo del cielo e da lì/ nascerà ancora un dio//».

Un verbo-verso che non paga pegno al post Montale, né ai minimalismi della linea lombarda, piuttosto rimanda nella concezione poematica alla Bibbia, a Saint-John Perse e Derek Walcott, perfino al Pound dei Cantos; in cui non c'è spazio per facili lirismi o sentimentalismi, né per una musicalità tradizionale, la parola si fa secca, dura, arcana, profetica, a costruire una personale mitologia e religione, a illuminare una verità che va oltre l'oscurità del presente.

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