"È la burrasca peggiore a far trionfare il coraggio degli uomini"

L'autore islandese parla di "Gabbiani nella tempesta", ispirato a una tragedia del 1959

"È la burrasca peggiore a far trionfare il coraggio degli uomini"

Gabbiani nella tempesta di Einar Kárason (Einaudi, pagg. 120, euro 15, traduzione di Stefano Rosatti), scrittore islandese autore di quindici romanzi pubblicato ora per la prima volta in italiano, è il racconto - breve e perfetto - di un fatto accaduto davvero: nel febbraio del 1959, alcuni pescherecci al largo di Terranova furono colpiti da una tempesta terribile, che durò tre giorni e fece duecento morti, fra cui molti islandesi. È proprio uno di questi pescherecci, l'immaginario Máfur, a essere protagonista del romanzo, con la lotta immane dei suoi trentadue uomini contro la furia di mare, ghiaccio e vento, fino al ritorno in porto, tutti salvi. Gabbiani nella tempesta ha appena vinto il Kulturhuset Stadsteatern International Literature Prize in Svezia; e il Financial Times che, insieme al Sunday Times, l'ha nominato fra i migliori libri dell'anno, vi ha scorto una certa «aria antica», di cui Kárason, al telefono da Reykjavík (non usa né whatsapp né Skype, e non ama molto neanche le email), si dice soddisfatto: «Ho 65 anni, posso essere vecchio stile...». Un «vecchio stile» che ha come modello Knut Hamsun, e in cui si fondono il ghiaccio e la lava, il cristallo impeccabile e la potenza dei vulcani d'Islanda.

Perché è partito dai fatti del 1959?

«Sono sempre stato interessato al mare, da giovane ho fatto il marinaio sui pescherecci e sulle navi mercantili: è così che a 19 anni sono stato per la prima volta in Italia, trasportando duemila tonnellate di baccalà al porto di Napoli. Trent'anni fa mi imbattei in un articolo su quella tempesta del '59, e quella storia iniziò a tormentarmi... Per anni e anni mi sono chiesto: come posso rendere tutto questo letteratura?»

E poi?

«Poi all'improvviso, due anni fa, ho capito che avrei dovuto scrivere un romanzo, il quale sarebbe iniziato con la tempesta che colpisce il peschereccio e finito con il ritorno in porto».

Come ha creato i personaggi?

«Nel mio primo romanzo, dell'81, uno dei capitoli è basato sulla mia esperienza di lavoro su un peschereccio nel 1975, e alcuni dei personaggi sono proprio gli uomini di quel peschereccio. Per esempio il nostromo era un poeta, come nel romanzo».

Quindi è grazie alla sua esperienza che ha descritto così nel dettaglio la vita di mare?

«Sì, è basato tutto sulla mia esperienza».

Suo padre era un pescatore?

«No, guidava camion e taxi. La mia è una famiglia semplice. Mio nonno Einar, di cui porto il nome, era un pescatore e lo era anche mio zio, che ho sempre visto come un eroe».

Scrive: «fare il marinaio in Islanda era un po' come arruolarsi nell'esercito in tempo di guerra».

«La pesca è sempre stata fondamentale per l'Islanda, ma per secoli, fino al 1970-80, ogni anno fra cinquanta e cento marinai rimanevano uccisi in mare. Ciascun uomo di mare poteva aspettarsi di non sopravvivere e di non tornare a casa, come un soldato in guerra. Ora è diverso, grazie alle tecnologie».

È stato come un sacrificio?

«Terribile. Quando avevo 18 anni ridevo della paura di mia mamma che potessi rimanere ucciso, pensavo che nulla potesse succedermi».

Proprio come il narratore Lárus, che significa «gabbiano». È vero che i gabbiani «sentono» la tormenta?

«Sì, quella tempesta arrivò del tutto inaspettata, ma alcuni dei sopravvissuti, in seguito, ricordarono che quella mattina i gabbiani non avevano volato nel cielo sopra di loro».

La Natura è tremenda e potente, eppure sono gli uomini a vincere.

«Questi uomini sì, sono sopravvissuti, ma quelli partiti appena prima di loro, sull'Harpa, sono rimasti uccisi... Perdi o vinci, è come una roulette russa».

Voleva descrivere proprio questa lotta con la Natura?

«Sì, sono sempre stato interessato ai romanzi ambientati nell'oceano: il mio autore preferito è Joseph Conrad, in particolare la sua novella Tifone».

Anche il suo è un romanzo molto breve.

«Volevo scrivere un romanzo breve, così ho cercato quante parole avesse Il vecchio e il mare, ho scoperto che ne ha ventiseimila, e ho deciso che il mio ne avrebbe avute altrettante».

Perché voleva che fosse breve?

«Questo è un romanzo su una tempesta che colpisce gli uomini in mezzo al mare all'improvviso e che non lascia loro un momento di pausa; e così doveva essere per il lettore, nessun capitolo, nessuna interruzione, devi trovarti subito nel mezzo della tempesta e non puoi uscirne fino a che non sia finita, devi essere come l'equipaggio».

Il romanzo è breve ma le frasi sono lunghe. Un'eccezione, nello stile contemporaneo.

«Credo che le frasi lunghe comunichino il senso della confusione di questi uomini. La frase breve è come mettere un punto, come dire che non ci sono dubbi; quella lunga è un modo per chiedersi che cosa stia succedendo, ed è ciò che prova l'equipaggio per tutto il tempo in mezzo alla tempesta, un senso di incertezza. Volevo fare in modo che il lettore rimanesse invischiato, dall'inizio alla fine, senza sosta».

Come gli uomini, che non hanno avuto tregua per tre giorni di fila, tutto il tempo a spaccare il ghiaccio, sommersi da onde alte dieci o venti metri...

«Non avevano scelta, se si fossero fermati sarebbero affondati, perché il mare era così freddo che, appena la barca veniva investita dalle onde, l'acqua si trasformava immediatamente in ghiaccio sulla sua superficie. E il ghiaccio li avrebbe fatti ribaltare, quindi dovevano continuare a spaccarlo».

Sono soli in mezzo al mare.

«I pescatori sono lontani da qualsiasi cosa, nessuno può soccorrerli, combattono completamente da soli; eppure ciascuno sa di essere parte dell'equipaggio: vivi insieme, sopravvivi insieme e muori insieme, e nessun membro può essere lasciato indietro, non ci sono pigri o codardi, è come nell'esercito».

Sembra tutto un incubo, ma qual è stata la cosa più spaventosa, secondo lei?

«Avevo sentito che alcuni dei sopravvissuti avevano perso il senno, non si erano mai ripresi da quell'esperienza, la peggiore che ognuno di questi marinai avesse mai avuto».

Come ha fatto a non prevalere il panico a bordo?

«La prima lezione che imparano i marinai islandesi è che devi sempre essere in grado di affrontare quello che succede, batterti per l'equipaggio e obbedire agli ordini del capitano, altrimenti non sei adatto a stare in mare. Devi sempre dare il meglio».

Però la lotta è impari.

«Per forza, non si può competere con la natura, la natura è sempre la natura, giusta o ingiusta».

Quegli uomini sono eroi?

«Non mi piace appiccicare etichette ai miei personaggi, però certo, quello hanno fatto è eroico: solo una persona molto tosta può rimanere sveglia per 72 ore lavorando come uno schiavo in mezzo a una tempesta».

E il capitano?

«Avevo letto che alcuni erano arrabbiati per lo sfruttamento subito, ma poi si erano resi conto che il capitano non aveva mai chiuso occhio, neanche un momento, era rimasto sveglio a controllare la nave e i suoi uomini dalla sua postazione per tre giorni di fila, bevendo caffè. La figlia mi ha telefonato ed era molto emozionata per come ho descritto il padre».

È un miracolo che siano sopravvissuti?

«Non direi. Avevano il 50 per cento delle possibilità. Due imbarcazioni erano nella stessa situazione, una è affondata ed è scomparsa per sempre, l'Harpa, mentre questi uomini si sono salvati, grazie a una combinazione di duro lavoro e scelte coraggiose, come quella di liberarsi delle scialuppe di salvataggio, che creavano troppo peso. Questa decisione, molto difficile, fu fondamentale per rimanere a galla».

Nel libro si sente la paura.

«Certo, lo volevo scrivere così, volevo che il lettore sentisse la paura da sé».

E lei ha provato paura?

«Molta. La prima volta che ho letto della tempesta ho sentito la paura impadronirsi di me e ho avuto degli incubi. E poi ho pensato che sarebbe stata una buona storia per un romanzo...»

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