Cultura e Spettacoli

Burzio, vecchio Piemonte e giovane liberalismo

Fra prose d'arte e politica, l'intellettuale torinese Filippo Burzio rifletteva sulla crisi della civiltà occidentale. L'inedito "Storia della mia vita"

Burzio, vecchio Piemonte e giovane liberalismo

In saggio dedicato a un trentennio di storia culturale torinese, Norberto Bobbio dedicò alcune pagine alla figura di Filippo Burzio (1891-1948), definendolo «piemontese di cuore» se non «di visceri» e «di testa cosmopolita». Era, quello di Bobbio, un ritrattino in punta di penna di un intellettuale il cui nome era ormai stato ingiustamente relegato in una ristretta cerchia di estimatori. Bobbio ne ricordava le letture predilette, ne sottolineava l'ammirazione per Alfieri e Cavour e la simpatia per Joseph de Maistre, ne ricostruiva il rapporto dialettico con Gobetti richiamando l'attenzione sulle cose che da questi lo dividevano, a cominciare dal giudizio su Giolitti. Rammentandone poi Essenza e attualità del liberalismo (1945), concludeva che Burzio esprimeva un conservatorismo proprio del vecchio Piemonte centrato su quel moderatismo che da Cavour giungeva a Giolitti passando per D'Azeglio e Balbo, nonché sul mito della monarchia sabauda. D'altro canto, che egli fosse uno scrittore piemontese - e non solo per motivi anagrafici - e che il suo liberalismo conservatore o, se si preferisce, il suo conservatorismo liberale fosse riconducibile al moderatismo subalpino è fuor di dubbio.

Laureatosi alla vigilia della Grande Guerra in ingegneria meccanica presso il Politecnico torinese, Burzio intraprese la carriera accademica insegnando al Politecnico e alla Regia Accademia d'Artiglieria di Torino. Ma coltivò anche una passione letteraria e un interesse filosofico, presto tradottisi nell'impegno politico liberale e antifascista, nell'attività di pensatore e scrittore e in una militanza giornalistica che lo portò, per due volte, durante i quarantacinque giorni badogliani e dopo la Liberazione, alla direzione del quotidiano torinese La Stampa.

Nel 1920 il giovane Burzio, nel quale Benedetto Croce riconobbe subito uno scrittore di razza e una delle voci più interessanti della nuova letteratura, pubblicò il primo libro Ginevra-Vita Nuova: un testo letterario, esempio di prosa d'arte, che risentiva di influssi e suggestioni propri dei fermenti culturali espressi dagli ambienti legati a riviste come La Voce e come La Ronda. Ma al tempo stesso un testo che si poneva, attraverso il registro autobiografico, come un «viaggio sentimentale» alla scoperta di se stesso - vengono, in proposito, alla mente due grandi libri del Novecento letterario italiano, Il mio Carso (1912) di Scipio Slataper e Un uomo finito (1913) di Giovanni Papini - e, si potrebbe aggiungere, alla ricerca di quel «tipo umano», da Burzio chiamato «demiurgo», il cui tratto fondamentale era porsi come elemento moderatore di contrasti e crisi e di non volere «disarmonie, né strappi nel tessuto dei giorni, ma un fluire sereno».

A questo libro si riallaccia - probabilmente ne costituiva parte integrante, poi espunta dall'autore - il lungo testo inedito che, con il titolo Storia della mia vita (pagg. XXXVI-226, euro 20) l'editore Nino Aragno pubblica, a cura del maggiore studioso burziano, Paolo Bagnoli, con l'aggiunta di una presentazione di Alberto Sinigaglia. Si tratta, ancora una volta, di una prosa d'arte, elegante e raffinata, che, attraverso la descrizione dell'innamoramento dell'autore, affronta, sia pur metaforicamente, il tema della presa di coscienza dell'intellettuale di fronte alla crisi, anche di valori, innescata dalla Grande Guerra. È sintomatico che il tema della crisi - crisi della giovinezza, ma anche crisi di civiltà - sia trattato in molte pagine di questo suggestivo libro. Un libro in cui si ritrovano anche passaggi fortemente critici sui «brillanti pubblicisti» allora di moda, cioè quei giornalisti «leggeri, nella migliore delle ipotesi» che «svolazzano, non approfondiscono», «sbocconcellano la realtà dall'esterno» e «non la penetrano con un'intuizione totale» perché nei loro scritti «c'è il meccanismo, manca l'uomo». Osservazioni acute, queste, di un giovane destinato a diventare uno dei maestri del giornalismo italiano del Novecento.

Non ci sono, in verità, in questa Storia della mia vita, pagine esplicitamente politiche, ma vi si ritrova un clima che prelude alla elaborazione di una teoria politica. Non è un caso che il secondo libro di Burzio, Politica demiurgica (1923), sia un'opera, dedicata a Benedetto Croce, già tutta politica che si apre con un saggio sull'attualità di Treitschke e contiene una apologia di Giolitti, prototipo del «demiurgo». Quando uscì il libro, Giovanni Ansaldo annotò nel suo diario che esso presentava «un Giolitti trasfigurato, adorno di tutta la serenità goethiana, della filosofia idealistica e di qualche fiore relativistico: un Giolitti ricco di tutti i residui delle derivazioni paretiane, un Giolitti insomma presentato con grande sussiego ed aplomb culturale». E aggiunse che «all'attivo del Burzio» c'erano «un senso assai vivace del piemontesismo e una efficace ironia su taluni atteggiamenti della Rivoluzione Liberale» di Gobetti.

A quell'epoca, Ansaldo non conosceva Burzio, lo incontrò un decennio più tardi, nel maggio 1933, e gli dedicò, nel diario, un ritrattino delizioso: «Bell'uomo, alto, complesso, con una faccia singolarmente fresca e giovane per i suoi quarantun anni, una fisionomia aperta e sicura del valligiano fatto signore; un profumo spirituale di vecchia sana provincia piemontese. Elegante nel vestire, ma di una eleganza seria e robusta. Nel discorrere è chiaro, aperto, calmo. Non ama parlare delle sue speculazioni filosofiche; piuttosto di politica pratica. È molto più antifascista, nell'intimo, di quanto non trasparisca dalla lettura dei suoi volumi; è antifascista a modo piemontese, direi anzi gobettiano, con una punta di disprezzo per questo popolo, per la retorica e la teatralità italiane».

Per capire davvero Burzio, soprattutto il Burzio pensatore politico, bisogna tenere presente il fatto che egli appartiene a quella «letteratura della crisi» che, pur attraverso declinazioni diverse, dal catastrofismo di Oswald Spengler al pessimismo di Johan Huizinga, segnò l'alta cultura europea nel periodo compreso fra le due guerre mondiali. Nasce in questo clima la sua teorizzazione della figura del «demiurgo» come tipo umano, quasi un maestro di vita, destinato a ricomporre la crisi della civiltà occidentale grazie a un percorso di costruzione morale e spirituale. Si tratta di una visione «metapolitica», per certi aspetti ingenua, ma suggestiva, dell'intellettuale impegnato il quale - attraverso un «cenobio» demiurgico fondato sull'amicizia e sulla condivisione di valori - riesce a creare una vera e propria scuola di élites capaci di reagire alla crisi dell'Occidente e alla flessione dei suoi valori.

All'indomani della guerra, dopo la caduta del fascismo e con la Liberazione, il pensiero di Burzio acquistò una maggiore solidità teoretica di cui il suo Essenza e attualità del liberalismo rappresenta la più compiuta manifestazione. Qui, seguendo la lezione di Gaetano Mosca combinata con quella di Vilfredo Pareto e senza rinnegare la sua «demiurgia», egli giunse a costruire una vera e propria «dottrina del liberalismo» fondata sulla «teoria delle élites».

E ad operare il recupero del filone di pensiero elitista alla tradizione liberaldemocratica.

Commenti