In una lettera del 1940 al «Chiarissimo Commendatore», ossia il patriarca Arnoldo, Dino Buzzati riconosce i vantaggi morali e materiali che avrebbe nell'entrare nella grande famiglia Mondadori (aveva appena pubblicato Il deserto dei tartari per Rizzoli...). E infatti già nel '42 esordisce come autore nel gruppo delle firme «illustri» della casa editrice milanese con la raccolta di racconti I sette messaggeri. In un'altra lettera si avanza un progetto, mai andato in porto, per un libro sulla Marina militare (nel '40 il giornalista è imbarcato su varie unità della Regia Marina italiana e scrive molte corrispondenze di guerra). In un altro gruppo di lettere, del '43, Buzzati discute con Mondadori i particolari della ripubblicazione del Deserto dei tartari nella collana dello «Specchio» (uscirà nel '45), e ci tiene a sostituire nei dialoghi il pronome fascista «Voi» (della prima edizione) con «Lei» (come nel dattiloscritto originale). In una lunga «lettera di mugugno» del febbraio 1961, ad Alberto Mondadori, figlio di Arnoldo, Buzzati si lamenta invece per il ritardo nella ristampa del Grande ritratto, per lo scarso lancio che l'editore ha riservato al libro, per l'«assurdità del contratto» («i doveri sono tutti dalla mia parte»: quanto poco è cambiato da allora...) e soprattutto per essere poco valorizzato: «Un editore non deve limitarsi a stampare, a vendere libri, ma deve curare i suoi autori, tener loro dietro, pungolarli, incoraggiarli, e così via». E poi sono le lettere a Vittorio Sereni, dal 1958 direttore letterario della Mondadori, in cui gli racconta il suo progetto più originale e ambizioso, il Poema a fumetti (edito nel '69, e che in fase di lavorazione cambierà più volte titolo: prima La cara morte, poi Cari misteri o Cara infelicità...).
Di Buzzati, anche ultimamente, si è ripubblicato molto e scritto tanto. È un autore letto e amatissimo. Settimana scorsa, a Cernobbio, si è svolto il festival «Parolario», interamente dedicato a Buzzati (il giornalista, il narratore, il pittore, il drammaturgo, il librettista...), curato da Lorenzo Viganò, il suo massimo esperto. Insomma, di Dino Buzzati si conosce ormai tantissimo. Ma - naturalmente - non tutto.
Ed ecco infatti una assoluta novità: la pubblicazione delle lettere, fino a oggi inedite, tra lo scrittore e il suo editore di riferimento: Il romanzo, «la mia stessa vita». Carteggio editoriale Buzzati-Mondadori (Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, pagg. 406, euro 24; a cura di Angelo Colombo). Pagine di letteratura, di vita, di editoria, di entusiasmi (quando Buzzati confessa di aver fatto leggere a sua mamma la lettera in cui Arnoldo parla di lui come lo scrittore che «può far risentire alta e profonda la voce del rinnovamento letterario italiano») ma anche di insicurezze e «depressione creativa»: fra Il deserto dei tartari e Un amore passano vent'anni, e sono molte le volte in cui l'editore incalza il suo autore a scrivere qualcosa di nuovo...
In tutto si tratta di 162 lettere, dal settembre 1940 all'autunno 1971, quando Mondadori manda in libreria l'ultima raccolta di racconti, Le notti difficili, pochi mesi prima della morte di Buzzati (in coda i biglietti di cordoglio inviati da Alberto Mondadori alla vedova Almerina).
È vero: una parte del carteggio tratta di questioni puramente editoriali (diritti d'autore, ristampe, dettagli contrattuali, copertine, formati... e le richieste di Buzzati per stampare il Poema a fumetti come ha in mente lui sono molto interessanti...). Ma emergono anche riflessioni sulla scrittura, precise visioni di politica editoriale, confessioni, sfogli, tratti caratteriali (Buzzati appare molto sensibile alle lusinghe di Arnoldo, e anche un po' ingessato; mentre invece è più naturale quando parla con Alberto o con Sereni) e illuminazioni di poetica narrativa.
Come le righe, le più belle del carteggio, in cui Buzzati parla - più a se stesso che al suo editore - del romanzo Un amore: «Credo di aver fatto, non ridere, una cosa indiscutibile per la forza della verità e del dolore». Non un romanzo scritto per gioco di fantasia o per sfizio letterario. «Questo libro è la mia stessa vita». E poi abbiamo capito che aveva ragione.
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