Per un bibliofilo, ma anche per un lettore qualsiasi, la bancarella di libri usati è croce e delizia. Croce perché c'è bancarella e bancarella: quelle specializzate in rarità impilano tesori che talvolta l'appassionato non si può permettere e lasciano il rimpianto, una struggente nostalgia per il volume così vicino eppure inarrivabile. Delizia, quasi per lo stesso motivo: c'è sempre la speranza che, guardando bene, salti fuori l'inaspettato, il capolavoro misconosciuto in vendita a pochi euro. Inoltre, davanti a una bancarella rifornita, ci si può levare curiosità a lungo coltivate oppure nate lì per lì, davanti a una copertina o a un nome attraente. E si torna a casa con una pila di libri acquistati a poco prezzo. Ah, che bello comprare tutti gli Achille Campanile e Marcello Marchesi ed Ennio Flaiano e Antonio Delfini e Giuseppe Berto e Giovanni Comisso che capitano sottomano. Che bello comprare le vecchie edizioni dei Canti di Giacomo Leopardi, con il commento di Giuseppe e Domenico De Robertis. E poi Papini, Prezzolini, Longanesi... Che bello dare la caccia alle varie edizioni di Fratelli d'Italia di Alberto Arbasino, una diversa dall'altra, anche nel contenuto. Che miniera di intelligenza può essere una bancarella.
C'è un altro aspetto interessante. Sempre più spesso, capita al bibliofilo di imbattersi in libri che oggi nessuno pubblicherebbe, per i motivi più disparati. Chi stamperebbe oggi una edizione anastatica del manoscritto del Canzoniere di Umberto Saba? Chi fonderebbe una casa editrice (Aria d'Italia) per portare sugli scaffali le opere di un solo autore (Curzio Malaparte)? Chi farebbe una plaquette con un pugno di poesie di Pier Paolo Pasolini (Dal diario, Edizioni Salvatore Sciascia, a cura di Leonado Sciascia)? Per non dire dei fuori catalogo: Bagatelle per un massacro, il pamphlet antisemita di Luis-Ferdinand Céline, tanto spregevole nel contenuto quanto prezioso nello stile, si trova unicamente sulle bancarelle.
Ci sono casi che lasciano perplessi, perfino sbalorditi. A cinque-dieci euro ti porti a casa un libretto di poche pagine ma sufficienti per fare una riflessione su come è cambiato il nostro Paese. Nel 1975, il direttore di Storia Illustrata Carlo Castellaneta allegò al numero 215 della rivista una piccola antologia, dal titolo La guerra civile in Italia contenente «testi di scrittori che furono testimoni di quelle vicende dalle due parti della barricata»; testi che «vogliono essere di monito alle nuove generazioni a non ricadere negli orrori di una guerra fratricida, ma anche un esempio nei valori della Resistenza» . Il volume raccoglie scritti di Nuto Revelli, Davide Lajolo, Valdo Fusi, Elio Vittorini, Beppe Fenoglio, Piero Caleffi, Ubaldo Bertoli, Carlo Levi, Giose Rimanelli, Mario Gandini. Il volume era targato Mondadori, ed era in una collana di «testimonianze di prima mano».
Era una raccolta «editorialmente corretta», che non metteva in discussione i capisaldi ideologici della Resistenza. Però dava la parola anche ai vinti, in particolare dava il giusto rilievo a un romanzo come Tiro al piccione di Giose Rimanelli, che raccontava con efficacia il punto di vista di un repubblichino anzi repubblicano: «È veramente buffo: noi di quaggiù, i repubblicani, diciamo di essere i veri figli d'Italia; quelli che stanno in montagna dicono che l'Italia appartiene a loro. Intanto ci spariamo a vicenda e non sappiamo chi è nel torto e chi nella ragione». Il romanzo, autobiografico, ebbe una vita editoriale travagliata. Fu preso da Einaudi ma l'editore torinese, quando il libro era già in bozze, fermò tutto nonostante questo parere di Cesare Pavese: un «giovane traviato, preso nel gorgo del sangue, senza un'idea, che esce per miracolo, e allora comincia ad ascoltare altre voci». Alla fine fu pubblicato da un editore ancora più grande: Mondadori, nel 1953. Ma rientrò nel catalogo di Einaudi nel 1991, l'anno in cui lo storico Claudio Pavone, da sinistra, recuperava il concetto di «guerra civile». Nello stesso anno Einaudi ripubblicò anche Un banco di nebbia di Giorgio Soavi, un'altra testimonianza dall'altra parte della barricata, anche in questo caso scartata (con qualche dubbio di Italo Calvino) da Einaudi e approdata a Mondadori nel 1955. Altri libri si sono poi aggiunti, in particolare quelli di Carlo Mazzantini (A cercar la bella morte è in edicola allegato con il Giornale).
La antologia curata da Carlo Castellaneta ci interroga fin dal titolo: quella «guerra civile» potrebbe incappare in qualche accusa di revisionismo. Il contenuto... Beh, come immaginate verrebbe presa una selezione che mette assieme, sullo stesso piano, Uomini e no di Elio Vittorini (manicheo fin dal titolo, proprio lui, Vittorini, che aveva tessuto l'elogio dello squadrismo nella prima edizione del Garofano rosso) e appunto Tiro al piccione di Rimanelli, che non ha certezze da esibire? La domanda è retorica: una antologia così finirebbe massacrata da qualche antifascista in assenza di fascismo, una specie intellettuale tornata in grande spolvero nell'Italia di oggi.
Non è che, per caso, mentre eravamo distratti dalle guerricciole politiche, la cultura italiana ha fatto uno o due passi indietro al punto da apparire meno libera perfino rispetto ad anni di forti divisioni ideologiche dalle conseguenze tragiche? Non sarà, alla fine, un problema di analfabetismo di ritorno, forse anche di andata? Una o due generazioni di chierici sono convinte che i «fasci» (categoria che comprende chiunque abbia idee diverse da loro) devono tacere, e così negano, innanzi tutto a se stessi, la più umile e meno giudicante delle virtù: la conoscenza, che precede le nostre, personali idee per illustrarci la complessità del mondo. Ecco, proprio «complessità» è la parola ipocritamente sventolata dalle menti semplici, e irresponsabili, che vogliono rifarci combattere una guerra civile per fortuna terminata da un pezzo.
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