Chiara puntò sulla provincia. E alla fine ha vinto il piatto

Oltre a vendere sempre, ora è studiato e tradotto. I punti di forza? Gli stessi usati dai giallisti, Camilleri e la Ferrante...

Chiara puntò sulla provincia. E alla fine ha vinto il piatto

A Varese, dopo la chiusura del Caffé Zamberletti, fra poco abbasserà la saracinesca il negozio di barbiere all'angolo di via Bernascone, dove lavora Alfio Radicioni, sotto il cui rasoio sono passate le gole di personaggi famosi, tra cui Piero Chiara.

E un altro pezzo di provincia se ne va. La stiamo perdendo, e invece è così meravigliosa.

Piero Chiara (1913-86), provinciale di lusso nato a Luino e morto a Varese - 30 chilometri e 73 anni di distanza - diceva che lui scriveva di borghi, paesi e mediocrità lacustri perché la provincia crede nel Bene e nel Male, e ha ancora la forza di scandalizzarsi. In realtà, aveva. Oggi non c'è più niente che ci stupisce, figuriamoci scandalizzare. «Ed è un peccato, perché la provincia per un grande narratore è un balsamo. Andrea Vitali, scrittore di un altro lago, quello di Como, ci gioca molto, da anni. Leggendo i suoi libri, come quelli di Chiara, hai la percezione di un mondo perduto che viveva secondo regole tutte sue...», fa notare Mauro Novelli, italianista all'Università Statale di Milano, già curatore dei due «Meridiani» di Piero Chiara e ora autore di un saggio - Nel golfo irrequieto. La narrativa di Piero Chiara (Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori) - che traccia il primo vero, ragionato, bilancio dell'opera del grande scrittore. Col sospetto che Chiara - un oscuro ex cancelliere di provincia che debutta nel romanzo a cinquant'anni con Il piatto piange e fa subito saltare il banco - sia più attuale oggi di trenta-quarant'anni fa. «Negli ultimi tempi si è assistito a una riscossa di Chiara. Vendeva prima e vende ora, certo. Ma è la critica ad essersi finalmente svegliata, anche grazie a un clima diverso. Oggi si apprezza proprio quell'artigianato di alta qualità della scrittura che a Piero Chiara deve molto: la narrativa di genere, giallisti e noiristi in testa, che da un po' di tempo, fin da Giorgio Faletti, piace molto e arriva ad Andrea Camilleri e persino a Elena Ferrante, cioè gli autori italiani che sono riusciti a farsi leggere nel mondo».

Non sembra, ma dall'altra parte di una sponda del lago c'è sempre un altro mondo. L'anno scorso, novembre 2019, sul New York Times uscì un pezzo - titolo già di culto: «Murder at Lake Maggiore» - che lanciò l'impressionante successo negli Stati Uniti della pubblicazione del romanzo di Piero Chiara The Bishop's Bedroom, La stanza del Vescovo. Da lì articoli, vendite e post Instagram su Piero Chiara, il lago, la provincia italiana... Storie di corna, sesso, segni della croce, pettegolezzi, caffè, mercati... Tutto quello che agli americani piace degli italiani. Esattamente come piaceva tantissimo ai tedeschi che da sempre sciamano dal Nord verso i laghi lombardi - ai tempi di Chiara.

Ai suoi tempi, Chiara vendeva anche 300-400mila copie a titolo. Un successo che a un certo punto la critica e i colleghi non gli hanno più perdonato. Giorgio Manganelli non diceva forse di insospettirsi ogni volta che gli capitava di vedere un buon libro nelle classifiche di vendita? Chiara ha pagato questo aspetto fino alla fine degli anni Settanta, e a lungo dopo morto. Del resto gli anni Ottanta-Novanta - quando peraltro comincia una certa esterofilia della nostra editoria - non gli si addicono. Cosa può avere a che fare uno come lui con chi legge, o recensisce, i Cannibali? Questo fino ai primi anni 2000. Poi i suoi libri, che pure Mondadori ha sempre tenuto in catalogo e tuttora ristampa in uniform edition negli Oscar, col cambio di Millennio hanno goduto di una riscoperta.

Perché? Perché i suoi romanzi e i suoi racconti citiamo Il piatto piange (1962), da cui è stato tratto il film del '74, ovviamente La spartizione (1964), la raccolta di racconti L'uovo al cianuro (1969), I giovedì della signora Giulia (1970) sono sempre di grande qualità e apprezzati da un pubblico traversale. I lettori colti colgono la strizzata d'occhio dell'autore e gli altri si divertono nel rivedersi, o meglio: rivedere il proprio vicino, l'amico, il collega (non certo loro stessi: i Fantozzi sono sempre gli altri), nelle avventure raccontate da Chiara. Letto caso raro più dai maschi che dalle donne. Sembra quasi di scorgere, dietro i libri di Chiara, la fotografia del pubblico di Camilleri...

«Chiara è uno di quei rari scrittori che cercano le proprie perle nella polvere della strada. Il suo prodigio sta nell'aver forgiato trame e figure a partire dai materiali più negletti, sviliti, ridicolizzati dall'alta cultura novecentesca - è l'idea di Mauro Novelli - illuminando mentalità e abitudini della borghesia piccina in un angolo fuori mano dell'Italia». Nostalgia delle piccole patrie?

Le piccolezze della vita, il tedio, il sapere tutto di niente e lo sparlare sottovoce di tutti, il mondo che si rispecchia sulle rive del lago... Servono velocità di messa a fuoco e essenza stilistica. Dieci pagine di un racconto sono un po' come tre minuti di una canzone. E infatti Piero Chiara ricorda molto Paolo Conte (suo grandissimo lettore): le atmosfere di provincia, il girarsi a guardare la gambe delle donne, il desiderio di un altrove che non arriva mai, «Me ne vado, me ne vado via da qui», stando sempre fermi però. Il passato raccontato al bar, che un po' è vero e tanto è inventato, un colpo di stecca, una mano di carte e un ghirigoro sui vetri di un Caffè.

Sembra la vita, ma è già letteratura.

«Io sono come i medici che scoprono i vaccini e li provano su loro stessi - diceva Chiara -. Devo provare la vita su di me prima di raccontarla». Ecco perché i suoi luoghi e le persone, che sulla pagina diventano personaggi, sembrano più veri del vero e sfuggono all'idillio, al sarcasmo o al disprezzo. La penna è sempre sorniona, comprensiva, affettuosa. Così come la sua provincia non è quella dell'agriturismo, del bozzetto, da cartolina. È un mondo duro, fatto di corna, tradimenti, invidie, piccole vendette, imbrogli. Che lui guarda come un burattinaio indulgente.

Chiara - che mentre i suoi colleghi più intellettuali cedono all'esotico, Moravia in Africa, Pasolini in India, Manganelli in Cina, gira al massimo per la Vecchia Europa: Spagna, Francia, Svizzera... ah, che meraviglia avere come orizzonte culturale il profilo del Rosa... - è riuscito a scavare proprio in quell'ambito che tutta la grande letteratura del Novecento ha disprezzato: la piccola borghesia di provincia, che chissà perché nei romanzi di tutti gli altri scrittori è sempre patetica, oggetto di satira o ripugnanza. E viene in mente Moravia, ma si possono citare altri venti-trenta nomi. Piero Chiara no: da quella stessa piccola borghesia di paese lui tira fuori l'idea che la vita di chiunque vale la pena non solo di essere vissuta, ma anche raccontata. Ripesca gli scheletri gettati da troppi mariti, padri, amanti, madri, figli, nel fondo del lago. Ma con profonda umanità.

C'è sempre un retrogusto amaro nelle storie di Chiara, e infatti Ugo Tognazzi è l'attore perfetto per portarle nel cinema.

È come se dicesse: «Siamo qui a rappresentare la commedia, ma sull'orlo del precipizio. Stiamo attenti. La vita è in bilico, l'inquietudine sottile...». Sogniamo pure un altrove. Ma senza allontanarci troppo dalle rive del lago.

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