Da Cannes
Il fatto culturale più importante del Sessantotto francese, fu il suicidio intellettuale di Jean-Luc Godard. Era il talento più brillante della sua generazione, l'inventore della nouvelle vague ancor prima di mettersi dietro a una macchina da presa, semplice critico dei Cahiers du Cinéma, da lui in seguito ribattezzati Cahiers du Caca...
Arrivato a 37 anni, aveva alle spalle A' bout de souffle, Pierrot le fou, Band à part, Le petit soldat e insomma era un classico riconosciuto come tale ancora in vita e non da morto. Poi, mentre il vento della contestazione cominciava a soffiare, girò La Chinoise, che nella sua testa era un omaggio e un'interpretazione del maoismo e della «rivoluzione culturale». Pensava che il governo di Pechino gli dicesse grazie e lo invitasse in loco per mostrarlo al popolo, ma le autorità cinesi gli dissero che non aveva capito niente ed era solo un putrido intellettuale. Ripiegò allora sul Festival di Avignone, dove lo proiettarono all'aperto, provocando nella notte la fuga del pubblico. Fu l'inizio della fine.
L'anno dopo Godard appoggiò in pieno il «Maggio francese»: credeva fosse un movimento che avrebbe sovvertito il Paese, non aveva capito che nello studente in collera c'era già in pectore il futuro notaio, constatazione non sfuggita invece a Jonesco, che sull'assurdo aveva costruito la sua arte. «I giovani hanno ragione anche quando sbagliano» rifletteva Godard: allorché sui muri della Sorbona apparve la scritta «Godard. Il più coglione degli svizzeri pro-cinesi» non fece una piega. Lui era vecchio, loro no. Peccato non avesse nemmeno quarant'anni.
Da allora in poi, fu un continuo rinnegamento di ciò che era stato e il suo cognome, che aveva fatto rima con la parola «star», cominciò per i suoi nemici a rimandare a «ringard», «fallito». Poiché aveva deciso di non essere «il regista dei miei film», girerà un western, Vent de l'Est, sotto il nome del collettivo Dziga Vertov. Se la rivoluzione significava la messa al bando dell'individualismo e dell'autorialità, lui era pronto a fare il passo indietro. Risultato: la rivoluzione non scoppiò, lui sì.
In Le Redoutable (Il temibile), il film in concorso di Michel Hazanavicius, viene raccontato, con toni da commedia, quel Joli Mai in cui la vita di Godard cambiò per sempre. Il seduttore brillante e un po' mondano, mistificatore e bon vivant, l'incarnazione di un'anarchia cinematograficamente sulfurea quanto politicamente innocua che aveva sposato la diciannovenne nipote di François Mauriac, ovvero il simbolo della Francia profonda e cattolica, si trasformò nella sua più completa negazione. «Rivoluzione vuol dire rivoluzionare se stessi» dichiarò allora. Fu di parola.
Ha detto Hazanavicius di avergli mandato la sceneggiatura, basata sul libro autobiografico Un an aprés, di Anne Wiazemsky, la moglie-bambina di Jean-Luc, ma di non aver mai ricevuto risposta. Dal suo eremo, Godard ha fatto sapere di considerare «stupida» l'idea del film e di volerne prendere a schiaffi il regista se gli capiterà di incontrarlo. Libération, che per Godard ha un vero culto, lo ha definito un «film inutile», aggiungendo che la cosa, di per sé, lascerebbe il tempo che trova, se non ci si trovasse di fronte soprattutto a «un film reazionario»... La miglior risposta gliel'ha data, sul Figaro, Louis Garrel, quando in un'intervista ha replicato: «Detesto l'idea della cultura come religione e annessa idea di sacrilegio. Ho ritrovato un'intervista in cui proprio Godard, alla domanda su quale fosse, a distanza di anni, il suo pensiero sul '68, ha replicato che si trattava di un soggetto buono per i film di Jerry Lewis...».
In realtà, Le Redoutable è un omaggio divertito, ma pieno
di rispetto, per una figura che in Francia incarna il cinema da più di mezzo secolo. Il prima citato Louis Garrel è sullo schermo un Godard meglio dell'originale. Stacy Martin interpreta Anne ed è bella come l'originale.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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