Joshua Bell è fra i numeri uno del violinismo internazionale. Tratti distintivi? Ha 50 anni, ma ne dimostra 10 in meno. Fa un sacco di soldi poiché è una garanzia per organizzatori di concerti e discografici, ha un'esclusiva con Sony. È bello, e col tempo l'aspetto del ragazzotto americano jeans e frangione ha lasciato spazio allo sguardo di un uomo che ha vissuto intensamente, e soprattutto: a modo suo. Così come è personale il fraseggio che ricava quando suona, e quel piegare la tecnica alle ragioni del canto. Il suo è un violino cantante, lirico, felino. Conosce il successo dal 1981: l'anno del debutto, glielo procurò Riccardo Muti. Da allora, questo violinista statunitense - per nascita, formazione e soprattutto spirito - si imbatte implacabilmente nell'Italia. Tanto che i due concerti di settimana prossima, in Conservatorio a Milano il 27, per la Società del Quartetto, e il giorno prima a Bologna, sanno di ritorno a casa (in programma Strauss, Mozart e Fauré).
C'è tanta Italia nella vita di Bell. Si parte dallo strumento, uno Stradivari del 1713, acquistato a 2 milioni di euro e oggi valutato intorno ai 20, «ma non lo venderei neppure per 50 milioni di dollari. È come i figli, ha un valore inestimabile». A proposito di figli. Joshua Bell ne ha avuti tre con l'italiana Lisa Matricardi, che continua a frequentare amichevolmente: ma case separate. «Purtroppo non parlano italiano né con me né con mamma. Però il nonno è di Reggio Emilia, è lui a tener viva la lingua». Quando rientra a New York, posa la valigia e va dritto da loro, «i nostri appartamenti distano 8 minuti a piedi e 3 se vado in scooter». Avverte forte la sua radice ebraica, «non sono uno che vada in sinagoga. Però sono vicino al sentire e alla cultura ebraica, al senso della comunità e della famiglia», spiega.
Vive a Manhattan, in un attico da favola, disegnato con l'architetto Charles Rose. «Abbiamo lavorato assieme per tre anni, riuscendo a ricavare anche una sala da concerti». Bell lavora sodo, ma guai a privarlo delle sue valvole di sfogo. «Capita che mi prenda due giorni e vada a Las Vegas - racconta - . Quando suono, l'adrenalina va alle stelle, così la cerco anche altrove, per esempio giocando in un casinò del Nevada. Paganini e Wieniawski persero il violino col gioco. Ok, non è cosa salutare, però...».
Però Bell è uno che ama il rischio, anche in palcoscenico. «Non puoi farti consumare dal pungolo della perfezione. Non devi mirare solo a quella. Devi rischiare, pazienza se sbagli una nota, ma devi tirar fuori l'anima. Sto seguendo le Olimpiadi. Anche lì, mi piace vedere l'arte, l'espressività e non la fredda routine della perfezione». Non disdegna la velocità al volante. Ha una Maserati e un'Audi Suv, «opportuna se hai tre figli». Ha provato Tesla, «mi ha colpito la velocità d'accelerazione, meglio di una Ferrari. Però mi piace il vecchio motore a benzina».
Anni fa, il Washington Post lo coinvolse in un esperimento. Suonò in metropolitana come un qualunque musicista di strada. La gente si sarebbe fermata ad ascoltare il prodigioso artista? Anche il Mit di Boston l'ha sottoposto a un esperimento per valutare quanto la musica coinvolga il cervello. Esito: «un'ulteriore conferma che la musica usa tutto il cervello». Lui ama gli esperimenti, tutto ciò che abbia a che fare con la scienza e la tecnologia. «Negli anni Ottanta comprai il mio primo Apple, trascorrevo ore a programmare giochi al computer», confessa. Dopo il caso Weinstein, in America stanno saltando teste anche nel mondo musicale, da James Levine a Charles Dutoit. Un commento. «Siamo nel bel mezzo di una rivoluzione. Supporto l'onda partita da Hollywood.
Mi rattristisce che gente che conosco bene come Dutoit sia stata coinvolta in tutto questo. Avverto un mix di emozioni. Ma è anche vero che tutto questo viene percepito in modo diverso a seconda del Paese. Da noi non si transige, magari altrove di più».
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