Cultura e Spettacoli

Così è finito il sogno della "Rive gauche"

Un saggio racconta gli ultimi bagliori della capitale francese, spenti dall'ideologia

Così è finito il sogno della "Rive gauche"

All'indomani della Seconda guerra mondiale, Parigi si illuse di poter tornare a essere ciò che era stata sino ad allora: la capitale culturale d'Europa, e quindi del mondo. Fu un'illusione che durò all'incirca un decennio, per poi declinare malinconicamente via via che il pendolo della politica, della geopolitica e delle mode andava fissandosi oltreoceano e il Novecento si confermava essere il secolo americano. Ho scritto capitale culturale, ma sarebbe più esatto parlare di capitale intellettuale, perché a differenza di altre nazioni e di altre capitali, era a Parigi che nel tempo si era venuto perfezionando il ruolo e il peso degli intellettuali nella vita pubblica. Dagli enciclopedisti che avevano scosso alle fondamenta l'Ancien Régime settecentesco, a Chateaubriand che aveva puntato l'indice accusatore contro Napoleone e la sua dittatura imperial-repubblicana, al Zola che con il suo J'accuse se l'era presa con la Francia antisemita fin de siècle, la scrittura era entrata sulla scena politica e no con lo stesso fragore di un colpo di pistola sul palcoscenico di un teatro. Era difficile capire chi sparasse a chi e se si fosse di fronte a omicidi o a suicidi intellettuali, se si sparasse in nome della libertà di pensiero o in nome della propria ideologia o del proprio tornaconto, restava però il fatto che le parole potevano trasformarsi in proiettili e uccidere, non solo metaforicamente. Un critico inglese, che si chiamava V.S. Pritchett, riassunse bene i termini della questione proprio in quegli anni da cui siamo partiti: «Noi non abbiamo né conversazioni né scrittori da cafè. Non siamo assolutamente capaci di giocare con le idee.».

Per la verità, un decennio prima, al tempo della Guerra di Spagna, la tentazione di giocare con le idee aveva attraversato Londra e dintorni e da Orwell a Auden, da Isherwood a Wyndham Lewis si erano un po' tutti illusi che il Tamigi potesse diventare la Senna Chi aveva giocato più degli altri era stato uno scrittore che, ulteriore paradosso della vicenda, non era né inglese né francese, ma ungherese più o meno naturalizzato tedesco: si chiamava Arthur Koestler ed era stata una campagna di stampa anglo-francese a tirarlo fuori dal carcere franchista. Allora Koestler era una spia russa travestita da giornalista, ma nell'arco di tempo in seguito trascorso era diventato anticomunista e aveva scritto Buio a mezzogiorno, un capolavoro. Tradotto in francese il libro aveva provocato uno sconquasso e ciò che Koestler andava in quel momento cercando a Londra ero uno status, il potersi considerare un punto di riferimento intellettuale grazie al quale poter combattere meglio la battaglia delle idee che andava profilandosi per le strade di Parigi. Si sbagliava e Pritchett, con una franchezza un po' brutale, in quell'articolo gli aveva spiegato il perché. Erano disposti a interessarsi agli scrittori e ai loro libri, non sarebbero caduti un'altra volta nella trappola di confonderli con i militanti di questa o quella causa. Tanto più, ma questo Pritchett non lo scriveva, che, intellettualmente parlando, quella di Koestler era una causa persa: professarsi anticomunista per uno scrittore era peggio di un crimine, era un errore, significava consegnarsi alla solitudine.

La cosa migliore sullo scontro fra Koestler e l'intellighentia francese coniugata a sinistra, la dirà cinquant'anni dopo Isaiah Berlin, non a caso un altro britannico naturalizzato. In sostanza, lo scopo del comunismo era eliminare lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo. In questo percorso, potevano esserci delle forzature, persino dei crimini, ma il fine giustificava i mezzi e chi criticava il comunismo faceva il gioco della reazione... «Non si può avere tutto ciò che si vuole -riassunse Berlin- e non solo in pratica, ma anche in teoria. Negare questo, perseguire un unico ideale onnicomprensivo perché è l'unico valido per l'umanità, invariabilmente conduce all'uso della forza. E poi alla distruzione, al sangue. Si rompono le uova, ma la frittata non si vede, c'è solo un infinito numero di uova, di vite umane, pronte per essere rotte. E alla fine gli appassionati idealisti si dimenticano della frittata e continuano a rompere le uova».

Di questa gigantesca omelette spesso e volentieri bruciacchiata e immangiabile che improvvisati quanto entusiasti chef del pensiero portarono in tavola nel secondo dopoguerra, dà una convincente ricetta Agnès Poirier nel suo Rive gauche (Einaudi, traduzione di Andrea Sirotti, pag. 351, 21 euro) . Il titolo è lo stesso di un classico sul tema, il Rive gauche di Herbert R. Lottman uscito già quarant'anni fa, ma è nel sottotitolo che si annidano le differenze. Quello di Lottman recitava: «Intellettuali e impegno politico in Francia dal Fronte popolare alla Guerra fredda». Poirier preferisce «Arte, passione e rinascita a Parigi 1940-1950». Senza disdegnare le idee, approfondisce insomma il coté artistico-umano, gli amori e le passioni, i tradimenti e i comportamenti gli stili di vita e l'interesse del libro non è tanto nel quinquennio bellico, un po' superficiale specie sul versante collaborazionista, ma in quello successivo della rinascita postbellica, dell'illusione di poter ancora recitare quel ruolo di capitale intellettuale da cui siamo partiti. Qui Agnès Poirier sottolinea intelligentemente alcuni elementi. Il primo è che lo status di città aperta protesse Parigi dai bombardamenti più di qualsiasi altra capitale nonché città europea e quindi la riconsegnò pressoché intatta agli occhi dei successivi visitatori, più povera, se si vuole, ma non per questo meno bella. La seconda ha a che fare con l'incredibile flusso di denaro e di giovinezza americana che, grazie al fondo per i reduci di guerra, cominciò a scorrere da una sponda all'altra dell'oceano. Da Saul Bellow a Norman Mailer, mischiando esordi letterari a servizi militari appena terminati, a borse di studio, sussidi eccetera, si poteva insomma vivere bene in una città che si rivelava a buon mercato da un lato, ma carica di piaceri e di tentazioni dall'altro.

A livello più alto provvedevano il lancio del Piano Marshall allo Ch âteau de la Muette, la prima assemblea generale delle Nazioni Unite al Palais de Chaillot, il proliferare della stampa in lingua inglese e dei corrispondenti Usa che facevano da cassa di risonanza alle novità intellettuali parigine. L'esistenzialismo, le caves, il sesso disinvolto, il ritorno della moda, con il new look di Christian Dior rilanciato dalle pagine di Harper's Bazaar, i nomi e i volti di Sartre, Camus, de Beauvoir, Gréco divennero familiari per i lettori di New York come di Washington. Persino il jazz sembrò essere made in France

E le idee? Le idee, con tutte le loro giravolte e ambiguità, nascondevano molte code di paglia: la prima e la più grossa riguardava la sconfitta e l'occupazione. La seconda aveva a che fare con un Partito comunista francese talmente infeudato a Mosca dall'aver preferito il patto Molotv-Ribbentrop alla difesa della patria e dall'aver combattuto Hitler solo quando Stalin da alleato se lo era ritrovato per nemico Tutti insomma avevano qualcosa da dimenticare o da non fa ricordare, tutti avevano bisogno di appartenere a qualcosa di più grande di loro, nessuno voleva rassegnarsi alla solitudine dell'intellettuale, impegnato o meno che fosse. Sotto questo profilo si rovesciavano un po' i termini dell'antico ruolo di coscienza critica, vate nazionale eccetera così ben incarnati dai Victor Hugo e dagli Zola del passato. Non era più sufficiente una fraternità, diciamo così, di casta: era quella ideale che contava. Scrive Agnès Poirier che con i suoi 27 quotidiani, il Partito comunista francese copriva nel 1947 il 25 per cento della stampa nazionale: «Gli intellettuali comunisti vivevano in una bolla autoreferenziale, autosufficiente e auto-criticante». Erano una sorta di chiesa laica che puniva con durezza ogni tentativo di scisma e premiava al massimo l'ortodossia. Sartre si barcamenò finché poté, accarezzando una sorta di neutralismo fra il blocco comunista e quello capitalista, criticando il comunismo, ma non in nome dell'anticomunismo: «È impossibile prendere una posizione anticomunista senza essere contro il proletariato». L'esistenzialismo, in fondo, era un umanesimo, qualsiasi cosa questo stesse a significare Nel 1951 si dichiarò infine un compagno di strada e scelse di tacere sul terrore staliniano.

Intanto però Saint Germain-des-Prés era divenuta sempre più un campus per gli universitari americani e il numero di turisti aveva finito con il superare il numero degli entusiasti. Simone de Beauvoir, il cui look, stando a uno dei suoi innamorati di sesso maschile, era «un incrocio tra una lesbica, una cocainomane e un fachiro», messo da parte l'impegno, le ideologie e la politica arruolerà, dieci anni dopo la sua prima apparizione, Brigitte Bardot fra le icone dell'esistenzialismo. Non lo aveva tenuto a battesimo, ma ne era un prodotto.

Come al solito, era una sorta di virtuosismo dialettico, ma andava bene così, anche perché l'esistenzialismo, come la nostalgia del resto, non era più quello di un tempo.

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