Cultura e Spettacoli

La via crucis di Gemma dalla voglia di vendetta alla strada del perdono

La vedova del commissario Calabresi, ucciso da Lotta Continua, racconta un percorso interiore durato 50 anni

La via crucis di Gemma dalla voglia di vendetta alla strada del perdono

La domanda deve aver scavato giorno dopo giorno dentro di lei: «Che cosa ci eravamo detti io e Gigi in quegli ultimi momenti insieme?». Quella mattina. L'ultima del commissario Luigi Calabresi. Gemma, la vedova, ha provato in tutti i modi a riacciuffare quel lembo strappato di memoria, portato via dalla routine ingannevole di quel 17 maggio 1972. Ma non c'è stato niente da fare: «È terribile, ma non me lo ricordo», confessa ora smarrita in una delle prime pagine del suo libro La crepa e la luce, uscito nei giorni scorsi da Mondadori.

Il caso, verrebbe da dire, si porta via tutto, fiori e detriti, e li confonde. Ma non è così. Questa è solo l'apparenza. C'è altro, molto di più. Gigi, come lo chiamava lei, rimasta sola con due bambini piccoli, Mario e Paolo, e uno nella pancia, esce di casa ma rientra quasi subito. E si cambia la cravatta: non più rosa, ma bianca. «Come vado così?, mi aveva chiesto. Poi aveva detto una frase che al momento mi era sembrata strana e anche esagerata, una frase che ora considero il suo testamento spirituale: Questo è il simbolo della mia purezza».

Davvero un'espressione che tocca, quasi una premonizione e in qualche modo il congedo dal mondo. Chissà. Cinque minuti dopo Calabresi viene colpito a morte sull'asfalto di via Cherubini, nel cuore di Milano. Gemma è sempre in casa e non sa ancora. Quella mattina, colma di sventura e di mistero, di disperazione e poi di una speranza sovrumana, Gemma sta aspettando la nuova domestica che arriva trafelata alle 9,30 e dice: «Mi scusi signora, so che è il primo giorno e sono in ritardo ma c'è una bolgia giù, una bolgia. Hanno sparato a un commissario».

La notizia, terribile, piomba così dentro quelle stanze borghesi e quella ragazza di venticinque anni deve fare uno sforzo per non svenire, mentre il bambino che è dentro di lei fa un salto «verso lo stomaco».

Poi la tragedia di una famiglia diventa un dramma nazionale e in qualche modo una data spartiacque. Le Brigate Rosse nel 1972 ci sono già, ma certo quell'azione efferata apre la strada al terrorismo che riempirà di lutti gli anni successivi. Una storia che è già stata scandagliata da centinaia di libri, documentari e film. Qui, in questo testo scritto con discrezione e quasi in punta di piedi, si resta nel perimetro di una madre in difficoltà, dei suoi piccoli, orfani di padre, dei genitori affranti, dei pochi amici rimasti. Si potrebbe pensare a una vicenda di lacrime e sofferenza, fra cimiteri, rimpianti e rinunce, e invece no. La vita riprende e corre: nasce Luigi, i figli crescono e si affermano, Mario, l'unico ad avere un vago ricordo del padre, diventerà uno dei più noti giornalisti italiani, Gemma si risposa con un artista straordinario, Tonino Milite, che sa intercettare la sua sensibilità segnata per sempre dal dramma vissuto e che con lei avrà un altro figlio: Uber.

Ma non c'è soltanto questo, o meglio questa è la parte che tutti possono vedere e capire. Il meglio, però, è fra le pieghe dell'anima e comincia il giorno stesso dei funerali, quando la madre di Gemma le mette fra le mani il necrologio preparato per salutare Gigi dalle pagine dei giornali. Sono le ultime parole di Cristo in croce: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno». La donna le accetta, ma non ne coglie la portata, anzi in segreto sogna di nascondere una pistola e di prepararsi alla vendetta più atroce; e invece la grandezza di quell'epitaffio viene immediatamente percepita dal cardinale Giovanni Colombo: «L'arcivescovo di Milano disse che il mio necrologio era un fiore deposto sul sangue di Gigi e che non sarebbe mai appassito».

Cinquant'anni dopo, Gemma Calabresi Milite si volta indietro e osserva che tutto, pur dentro quell'interminabile via crucis, ha trovato un senso: Dio ha bussato al suo cuore e lei ha risposto, ha riacquistato la serenità perduta, è riuscita a non farsi travolgere dall'odio e dal rancore, è stata capace di arrampicarsi sull'orizzonte del perdono. «Oggi... posso dire che Colombo aveva ragione perché quelle parole, anno dopo anno, sono fiorite dentro di me fino a fare di quel necrologio una corda che mi ha aiutato a risalire la china». E a non rimanere prigioniera di quel che era accaduto il 17 maggio 1972. Gemma incontra Leonardo Marino, il pentito del commando assassino, e abbraccia Licia Pinelli, la vedova dell'anarchico precipitato dalla questura poche ore dopo la strage di piazza Fontana e dopo essere stato interrogato da Calabresi che, per questo, verrà ucciso.

Così nell'epicentro della violenza più insensata si compie un miracolo di fede e speranza. Lo stesso, a pensarci bene, che il Papa implora ora per l'Ucraina.

Un miracolo silenzioso ma tenace, maturato giorno per giorno sui marciapiedi insanguinati di Milano.

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