Kamel Daoud sarà al Salone del libro di Torino domani alle 15 (Arena Piemonte) ed è una delle firme giornalistiche e letterarie più prestigiose dell'Algeria. Da decenni tiene sul Quotidien d'Oran la rubrica «Raïna raïkoum», il cui titolo è traducibile come «La mia opinione, la vostra opinione». In quella manciata di righe ha sempre detto la sua senza peli sulla lingua. Lo ha fatto sull'Islam, sul ruolo della donna, sul rapporto tra Europa e Paesi islamici. Nel 2013 ha pubblicato il romanzo Il caso Meursault - libro che nel 2015 si è aggiudicato il premio Goncourt per il romanzo d'esordio - e in poco tempo è diventato uno degli intellettuali che scrivono in lingua francese più noti. Amato dai lettori ma anche molto odiato dagli integralisti religiosi. È stato colpito da una fatwa (dell'imam salafita Abdelfattah Hamadache Zeraouiper) per aver detto: «se nel mondo arabo non risolviamo la questione di Dio non riusciremo a riabilitare l'uomo, non avanzeremo». Non bastasse, è riuscito ad attirarsi anche le accuse dei cultori occidentali del politicamente corretto: un gruppo di 19 sociologi e altri intellettuali francesi, su Le Monde lo accusarono di islamofobia per aver denunciato, nel 2016, «la miseria sessuale del mondo arabo» come una delle cause dei fatti di Colonia. Un colpo duro, tanto da convincerlo per un periodo a fare un passo indietro. Scriveva all'epoca: «Ogni volta che scrivo qualcosa ricevo tonnellate di insulti e minacce, e per fortuna anche manifestazioni di sostegno. Ma non mi trovo a mio agio, perché non sono un provocatore, sono solo un uomo libero che vuole esprimere la sua opinione. Questo non è più possibile».
Ora arriva in Italia per i tipi di La nave di Teseo il suo nuovo romanzo che in Francia è uscito nel 2017. Si intitola Zabor o I Salmi (pagg. 320, euro 19, traduzione di Sergio Claudio Perroni) che ha vinto il Prix Méditerranée nel 2018. Il protagonista Zabor vive in un villaggio algerino dove saper leggere e scrivere è un'eccezione e la ricchezza si misura in pecore. Eppure sin da bambino per lui, orfano di madre tenuto a distanza dai suoi fratellastri, la scuola, la scrittura hanno rappresentato la porta della libertà, e non solo. Zabor è certo di avere un dono: «Scrivere è l'unico stratagemma efficace contro la morte. Gli uomini hanno provato con la preghiera, le medicine, la magia, i versetti ripetuti a litania, l'immobilità, ma penso di essere l'unico ad aver trovato la soluzione: scrivere». E Zabor scrive continuamente («appena il tempo di mangiare e fare i bisogni»), affina la sua arte, cerca di fissare su carta ogni cosa. Tanto che nel paese da un lato è ghettizzato, dall'altro è etichettato quasi come uno stregone. Ma c'è anche chi crede che il suo scrivere sia l'unico modo per salvare i morenti. La sua passione per la scrittura è blasfemia? Sarà, ma poi al momento del bisogno nessuno sa dirgli di no.
La narrazione molto onirica di Daoud si trasforma in una grande metafora della letteratura. Zabor incarna tutti gli scrittori: «La scrittura è stata inventata per fissare la memoria, è questa la premessa del dono: se non si vuole dimenticare, è perché in un certo senso non si vuole morire o veder morire attorno a sé».
Ma se il romanzo è quasi un saggio sulla metafisica della letteratura, una ricerca intimista sul motore primo della narrazione, non manca nemmeno un'analisi attenta del mondo di cultura islamica. Per l'Islam è fondamentale la distinzione tra chi fa parte della Gente del Libro e chi no. La scrittura è potere. Ma questo potere non ammette che qualcuno conquisti la sua libertà, il suo proprio Verbo.
Certo, accade anche in Occidente, lo stesso Daoud ha provato sulla sua pelle la diffidenza verso lo scrittore libero. Quindi il metaforico villaggio che ama e odia il letterato si può allargare all'intero pianeta, ma ovviamente Daoud lo declina nel crogiuolo culturale opprimente che meglio conosce.
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