No, un'altra predica romanzata contro la tecnologia che ci aliena da noi stessi no, vi prego. È da trent'anni che vanno queste tiritere, soprattutto da parte dei letterati, scrittori o filosofi che siano, ma anche al cinema (tecnologia cattiva, natura buona), nelle serie tv, ci mancava anche l'ultimo romanzo di DonDeLillo, Il silenzio (Einaudi).
Il libro è corto corto (per fortuna), romanzo breve o racconto lungo fate voi, e la trama semplice semplice: un gruppo di amici si ritrovano per guardare il Superbowl in diretta tv e a un certo punto lo schermo diventa nero, e non solo lo schermo, non funziona più niente di elettronico: internet, cellulari, computer. Al che il gruppetto si ritrova spaesato, terrorizzato, non sono più capaci di comunicare tra di loro perché sono sconnessi da tutto, e ci credo.
Intendiamoci, la cosa, dal punto di vista scientifico, potrebbe anche accadere, basterebbe una tempesta solare sufficientemente forte, come è già accaduto in passato (ma prima che fossimo così legati a protesi tecnologiche), e sarebbe un disastro. Ma dubito che qualcuno a un certo punto direbbe oh, come stiamo meglio adesso. Neppure i grillini.
Lasciamo perdere le ipotesi dei nostri eroi: c'è chi dice che sono stati i cinesi, chi scomoda degli appunti di Einstein, oppure «le nostre percezioni personali che sprofondano nella supremazia quantistica», come no, con scappellamento a destra. Vi dico una cosa: ogni volta che sentite l'aggettivo «quantistico», in un film, in un libro, in un sermone metafisico, vi stanno prendendo per il culo.
In ogni caso il punto è che non è quello il punto, ma la solita visione antimoderna, la morale della favola, l'uomo che comunica poco per colpa dei social, degli smartphone, di Whatsapp (come no, io ogni giorno sento i miei migliori amici, una scienziata che sta a Edimburgo, un neuroscienziato che sta a Trento, Giorgio Vallortigara, con il quale ho pure scritto un libro e ci siamo visti due volte, uno psicoterapeuta e un assicuratore cristiano di Udine, e tanti altri grazie alla tecnologia, senza forse non ci saremmo mai conosciuti).
Una volta DeLillo ce l'aveva con i supermercati alienanti (cosa gli avranno fatto i supermercati non l'ho mai capito, comunque problema risolto, io ordino la spesa con Amazon e chi s'è visto s'è visto), si pensi a Rumore bianco (e, mi raccomando, dovete sempre dire che Rumore bianco è un capolavoro), acclamatissimo da tutti gli antimoderni anticapitalisti, marxisti o fascisti che siano. Oggi ce l'ha con internet, con i telefonini, e ecco il silenzio, portatore di future rinascite e felicità. Torniamo indietro di due secoli, che figata.
Ah, il silenzio. Che dopo il blackout porta tutti a monologhi sconnessi, autoreferenziali, perché la tecnologia ci ha abituato a vedere la nostra faccia quando facciamo una videochiamata e dunque siamo tutti narcisisti (come se nel Settecento le case dei ricchi non fossero piene di ritratti in pose auliche commissionati a grandi pittori). Prima della redenzione. Un po' come quelli che vanno in India per ritrovare se stessi, e in genere quando tornano, dopo aver ritrovato se stessi, sono dei pirla molto peggio di quando sono partiti, altrimenti non sarebbero partiti.
Il bello è che questo libro è stato scritto prima della pandemia, uscendo adesso è ancora più ridicolo: senza Netflix, senza Amazon, senza la Playstation, senza i social, senza le videochiamate su Skype, ci saremmo suicidati, altro che ritrovare noi stessi e la natura (la quale ci ha ricordato cos'è mandandoci il regalino del Covid-19). «E non è strano il fatto», si chiede DeLillo, il narratore di DeLillo, intradiegetico o extradiegetico o quello che è, «che certi sembrino aver accettato questa sospensione, questo guasto? Forse è qualcosa che hanno sempre desiderato a livello subliminale, subatomico?». Desiderato a livello subatomico? Ha scritto proprio così? Desiderato a livello subatomico?
Altra cosa bella è che tutti si sono sperticati in elogi paragonando DeLillo a Samuel Beckett. Sia perché hanno letto «il silenzio» e il silenzio è Beckett. Se lo intitolava L'urlo era Faulkner, senza furore però.
Quando la follia, l'egolatria dei personaggi di Beckett, e perfino il silenzio a cui giungono, non c'entrano niente con la modernità, è una condizione esistenziale dell'essere umano. Io piuttosto lo paragonerei a un romanzo di Corrado Augias, che dopo essere caduto in una truffa informatica che neppure un bambino di otto anni, avrebbe suscitato più tenerezza, a livello subatomico almeno.
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