Dieci anni fa moriva Bruno Lauzi. Dovrei usare il passato remoto e non l'imperfetto, perché Bruno «morì» per poi finire tra gli oggetti smarriti. Smarrito e perduto dal mondo dello spettacolo, della musica, della cosiddetta cultura e dei cosiddetti intellettuali. Perché Bruno non apparteneva alla sinistra, dunque al movimento che occupava e occupa teatri e scene, palchi e manifesti, premi e riconoscimenti. Lauzi era un liberale, come cittadino votante e come testa pensante, era un poeta, era un autore, era un cantante, era un cantautore, era un uomo di cabaret e di intelligenza. Al suo funerale, nel sito di San Bovio, dunque Peschiera Borromeo, in quel giorno di ottobre malinconico, intravvidi un gruppetto di amici e conoscenti, pochissimi, rari. Assenti, invece, tutte le figure illustri della musica, dello spettacolo, della televisione. Nessuna celebrazione pubblica, la commozione da repertorio, fine di una vita, il premio Tenco gli venne assegnato alla memoria, dopo la morte.
Bruno Lauzi concluse soffrendo la sua esistenza, senza urlare, naufrago sull'isola della malattia bastarda, la sua voce era la fiamma di una candela, tremula era stata anche prima ma per arte, furba non fragile, una corda di chitarra, melodia, come strumento parlante. Testi poetici, ironie accompagnate all'amore, alla dolcezza, al sentimento. Venuto da Asmara, emigrato tra Varese, Genova, Milano, Peschiera Borromeo, meteco dovunque e comunque, cittadino con tutti, sapeva accarezzare l'anima e il corpo di chiunque ascoltasse le sue interpretazioni. La voce accompagnava le note e queste la voce, così gli aveva insegnato il padre. Lui, Bruno, aveva frequentato gli studi classici, all'Andrea Doria di Genova si ritrovò compagno di banco con Luigi Tenco, insieme con altri, Gino Paoli e Bindi e Fabrizio De André, avrebbe formato la famosa scuola genovese che lui stesso demoliva: «Luigi è di Alessandria, Gino di Monfalcone, io vengo dall'Eritrea, dunque tutte balle». A Varese si trasferì facendo il giornalista di improbabili pubblicazioni, passava i testi, dunque novelle e scritti, di Piero Chiara da lui apprendendo e completando la propria bizzarria esistenziale e la vita dolce, non certo la dolce vita. A Milano era diventato sodale della tribù del Derby, dunque Cochi, Renato, Felice Andreasi e il «follle» Francesco Salvi, roba buona per la testa e la festa. Bruno Lauzi fu traduttore, diplomato, interprete delle canzoni di Brassens e Aznavour, di Brel e Moustaki (Lo Straniero), frequentava benissimo la lingua italiana e quella francese e inglese, spacciava anche quella lusitanabrasileira e al tempo del o' frigideiro qualcuno ci cascò, il testo e l'interpretazione, in velocissimo e stretto dialetto genovese, fece il giro non soltanto dei caruggi.
Lui si faceva chiamare Miguel, con lui suonavano i Caravana, che erano i facchini, appunto gli accompagnatori del cantante il quale, alla domanda chi fosse Miguel, rispondeva: «Miguel son mi».
Quando provarono ad invitarlo ad una festa dell'Unità, Lauzi chiese, come garanzia, che, prima delle sue canzoni, qualcuno illustrasse le ragioni e le vicende dei prigionieri dei gulag. Ovviamente l'invito venne cancellato, quelli della sagra comunista evitarono l'argomento, per loro tutto ciò che non fosse rosso era nero, compresi i pagamenti, come dimostrano le cronache contemporanee. Lauzi risparmiò Guccini, considerava gli altri, tutti, seduti sui milioni ma con il pugno chiuso. Scrisse canzoni che pochi conoscono e pochissimi gli riconoscono, da Ritornerai ad Almeno tu nell'universo, compose con Battisti e Mogol, cantò Paolo Conte, Onda su Onda, Genova per noi, Una giornata al mare, l'avvocato di Asti lo definì «il mio ambasciatore». L'ironia e il sarcasmo segnarono la sua esistenza, quando la malattia, il Parkinson, prese a ferirlo, seppe contrastarla con una serie di battute favolose: «Vengo mosso nelle foto», «Quando mangio la minestra, il tempo per avvicinare il cucchiaio alla bocca si allunga ma almeno non mi scotto»; se qualcuno gli stringeva la mano per il saluto e quindi, avvertendo il tremore, si scusava, riusciva a sciogliere l'imbarazzo: «La ringrazio, così almeno è riuscita a tenerla ferma per qualche secondo».
La mano era stata la sua farfalla, la compagna di fantasie, la complice di passioni, la guida di poesie e di canzoni, poi diventò il segnale maledetto, la luce fioca, la resa. Ne scaturì una poesia la cui lettura provoca turbamento: «La mia mano a farfalla/ bestiola spaventata/ frullo d'ali improvviso/ di preda impallinata/ di rifugio in rifugio/ di taschino in taschino/ ha una sola speranza;/ che voi dimentichiate/ le sue dita agitate/ che riempion la stanza/ mentre si inventa il vento/ o racconta il mare/ Nata per lavorare/ Sul palco della vita/ Per farsi perdonare/ Arranca inutilmente/ Eppure l'ho avvertita:/ Faccia quel che si sente,/ io la continuo ad amare,/ pur se perdutamente...».
Piccolo, ricciuto, bianco di capelli, era inaspettatamente cercato da femmine spettacolari: «Negli uomini l'intelligenza ha, per fortuna, la prevalenza sulla bellezza. Altrimenti Nicola di Bari e io saremmo dovuti scomparire subito dopo la nascita.
Comunque l'ispirazione per le canzoni d'amore può arrivare prima o dopo una storia. Durante non saprei proprio dove mettere la chitarra». Il male feroce se lo portò via a sessantanove anni.Nel silenzio ignorante, restano memorie fresche e canzoni bellissime, di un uomo liberale e libero.
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