Cultura e Spettacoli

Le disavventure di Londres al tramonto del Celeste impero

Brutta, sporca e cattiva: così il grande inviato francese descrisse "La Cina nel caos" fra gli anni Venti e Trenta

Le disavventure di Londres al tramonto del Celeste impero

«Il suo reportage non è nella linea del giornale» aveva detto il direttore di Le Petit Journal a Albert Londres, inviato sui fronti orientali della Grande guerra, Serbia e Grecia, Turchia e Albania. «Un reporter conosce una sola linea, quella ferroviaria!» aveva replicato lui sbattendo la porta e andandosene. Londres aveva allora trentacinque anni, aveva esordito con un libro di poesie, era stato corrispondente locale e poi cronista politico. Nel 1914, il suo desiderio di andare volontario al fronte gli era stato negato dal personale medico-sanitario: cuore e polmoni non erano a posto, riformato perché inabile alle armi... Londres aveva abbozzato, ma al fronte c'era andato lo stesso, da civile e in bicicletta e forte del tesserino di giornalista parlamentare di Le Matin, quotidiano di Parigi. Era arrivato a Reims nel settembre del 1914, giusto in tempo per assistere al bombardamento della città e all'incendio che ne aveva devastato la magnifica cattedrale. Arruolato sul campo un fotografo perché documentasse il rogo, aveva poi spedito un reportage completo, testo e foto, al Matin e così dall'oggi al domani ne era diventato il corrispondente bellico più titolato.

A Londres però la «guerra delle trincee» non piaceva. Non solo era statica, ma la censura militare ingessava ancor più gli scarsi margini di manovra della cosiddetta «stampa in uniforme», in specie su quel fronte occidentale che poi per i francesi era in gran parte il proprio fronte nazionale... Aveva bisogno di libertà d'azione e soprattutto di libertà di movimento, anche perché il giornalismo che gli era congeniale era impressionistico, metteva più l'accento sul reporter, cioè sé stesso, che sul soldato, cioè la guerra che questi combatteva. Era per questo che tempestava la direzione del giornale perché lo mandasse a oriente: meno vincoli burocratici, più esotismo, scarsissima concorrenza e un campo d'azione smisurato, perfetto per il lettore medio francese in cerca di avventure che lo distraessero dalle angosce del fronte interno...

Il direttore del Matin non si era però lasciato convincere e così Londres era passato appunto al Petit Journal, incrementandone le vendite sino a quel malaugurato giorno in cui era stato licenziato in tronco, a guerra ormai finita e quando era ora la pace a rivelarsi il nuovo terreno di scontro. Dietro quel licenziamento i bene informati facevano il nome di Georges Clemenceau, il «Tigre» della politica francese. Di ritorno dall'altra sponda dell'Adriatico, Londres aveva fatto in tempo a dare uno sguardo alla Fiume dannunziana e a dar conto del risentimento italiano per la «pace mutilata» che altro non era che puntare l'indice contro la prepotenza francese in materia, e questo non gli era stato perdonato.

Nel 1920 Londres è in Russia per l'Excelsior , «quotidiano popolare di qualità». Intervista Trockij e Lenin, non gli piace il regime e lo scrive, ma non crede che il compito di un giornalista sia fare propaganda politica. Più semplicemente ritiene che non si debba essere «pro o contro, ma mettere la penna nella piaga». Racconta gli orrori della colonia penale della Caienna, e lo fa talmente bene che poco dopo la pubblicazione da Parigi decideranno di chiudere il penitenziario... Denuncia le tare del sistema psichiatrico francese, realizza inchieste sulla tratta dei negri in Africa, su quella delle bianche in Argentina, sui pescatori di perle di Gibuti, sulla persecuzione degli ebrei nell'est Europa... È incontestabilmente il più famoso e il più bravo degli inviati speciali di Francia, il caposcuola stilistico e umano di un genere che da Kessel a Bobard, a Lacouture, a Larteguy si allungherà sino agli anni Sessanta del Novecento, e insieme il compagno letterariamente meno colto di quegli scrittori viaggiatori che da Morand a Mac Orlan, a Cendrars, a Maillart, fra le due guerre percorrono il mondo. Albin Michel è il suo editore e grazie all'amico e collega Henri Bérard, divenuto direttore del Petit Parisien, ha praticamente un giornale a sua disposizione.

Chi voglia avere un'idea della prosa di Londres e della sua bulimia di «vagamondo» («esistono due tipi di individui: quelli con i mobili e quelli con la valigia») può leggersi il suo La Cina nel caos (O barra O edizioni, pagg. 160, euro 16, traduzione di Alessandro Giarda) da noi appena uscito e da lui scritto nel 1925. Che cosa fosse allora la Cina, Londres lo aveva ben chiaro: «Per chiunque il paese è un bottino», il suo scopo è l'oro, il suo culto la ricchezza... Entrata nel Novecento trascinandosi dietro l'esausta dinastia Qing, ha visto poi convivere un governo repubblicano provvisorio, una nuova monarchia altrettanto provvisoria, la frammentazione in tante regioni semiautonome sotto altrettanti «signori della guerra». Ci sono i nazionalisti del 4 maggio 1919, quando il trattato di Versailles ha dato al Giappone gli antichi diritti tedeschi sullo Shandong cinese, ci sono i comunisti nati l'anno dopo sull'onda del bolscevismo russo, ci sono dentro lo stesso Guomintang nazionalista la destra capitalista e militarista e la sinistra populista e repubblicana. In breve, come riassumerà Londres, «un imperatore, due presidenti della Repubblica, tre super-dittatori e diciotto tiranni medi». Quando sbarca in Cina è alla vigilia della prima guerra Zhili-Fengtian e fra Pechino, Mukden, Tientsin e Shangai l'atmosfera è sospesa e l'anarchia regna.

Tutto questo contribuisce a mettere sullo sfondo il conflitto in atto. Londres sa benissimo che dar conto delle parti in lotta non ha senso: il nemico del giorno prima diventa l'alleato del giorno dopo. Ciò che racconta al lettore è sé stesso, il tipo umano francese, l'europeo bianco e civilizzato alle prese con un mondo barbaro e crudele, infantile e violento. Soprattutto, sporco: «Aprii la finestra. Vidi che fuori tutto era disgustoso. Mi ricordai di essere in Cina». E ancora: «La città cinese assicurerà la felicità della mia vecchiaia. Rientrerò a Parigi, arrafferò tutte le mollette da bucato che troverò. Ritornerò sullo Huangpu e mi piazzerò alla porta della città indigena. Prima di entrarci, tutti compreranno il mio piccolo strumento per turarsi il naso. Tornerò miliardario».

Stereotipi, esagerazioni, sottovalutazioni? Londres appartiene a un'epoca che ancora si illude sulla centralità dell'uomo bianco europeo rispetto al mondo che lo circonda. Non ha sensi di colpa, non deve chiedere scusa a nessuno, è orgoglioso della civiltà che rappresenta. Non è un caso che il Tintin di Hergé, il più popolare fumetto dell'epoca, gli sia debitore. Londres è il reporter intrepido e allegro, sempre in movimento, sempre in azione, sempre vittorioso...

Sulla Cina, comunque, Londres coglie l'elemento fondamentale, quello che ancora oggi tiene banco: «Non è uno Stato è un continente. Lo vede quanti problemi avete voi a intendervi all'altro capo del mondo. Cosa fate? Pazientate. Anche noi pazientiamo. Tanto più che nel nostro caso è una disgrazia per un solo popolo: il nostro. Noi ci dilaniamo, ma in famiglia. È un militarismo domestico».

La Cina sarà fatale a Londres. È il 1932, è stato di nuovo a Pechino, a Shanghai, a Hong Kong. Non deve più raccontare una guerra incomprensibile, ma le ramificazioni del traffico d'oppio. Muore nell'incendio del piroscafo francese Georges-Philippar che lo sta riportando in patria. C'è allora chi è pronto a giurare che dietro quel fuoco ci siano le triadi cinesi, preoccupate da un'inchiesta che il suo autore ha già definito «esplosiva». Dopo la sua morte, la figlia Florise istituirà il premio giornalistico Albert Londres. Esiste ancora.

Importante come il nome che porta.

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